“Sii te stesso.”
Lo leggiamo ovunque: sui poster motivazionali, nelle caption di Instagram, nei discorsi dei coach.
Ma siamo sicuri che sia sempre un buon consiglio?
Forse dovremmo iniziare a chiederci: quale versione di noi stessi stiamo portando nel mondo?
E se l’autenticità, presa troppo sul serio, rischiasse di diventare una prigione?
Il culto dell’autenticità
Viviamo in un’epoca in cui l’autenticità
è diventata una parola magica. Non essere autentici, oggi, equivale quasi a essere colpevoli.
I social ci invitano a mostrarci “per come siamo davvero”, le aziende si sforzano di sembrare “autentiche” nelle loro campagne pubblicitarie, persino i politici cercano di essere percepiti come
“genuini”, anche quando si vede lontano un miglio che stanno recitando.
Essere autentici, insomma, è diventato un dovere, una virtù, e persino un marchio di qualità. Ma è davvero così semplice?
I limiti dell’autenticità
Il problema nasce quando l’autenticità viene trattata come un lasciapassare universale. “Sono fatto così” può diventare una scusa per non mettersi mai in discussione.
A volte, dietro la maschera della sincerità, si nasconde solo una forma educata di egocentrismo.
Essere autentici non significa dire tutto ciò che ci passa per la testa, né agire secondo impulso. Significa forse, più semplicemente, scegliere con consapevolezza quale parte di noi vogliamo portare nel mondo.
E ammettere che, in certi contesti, un po’ di discrezione non è ipocrisia: è rispetto.
Un punto di vista alternativo
Forse il vero esercizio di autenticità non è “essere se stessi a tutti i costi”, ma imparare a scegliere chi essere, quando, e con chi.
L’idea che abbiamo un solo “vero io” da esibire in ogni contesto è comoda, ma ingenua. Nessuno di noi è uno. Siamo tante versioni, e a volte è proprio la capacità di modulare queste versioni a renderci persone migliori, non peggiori.
Essere autentici, allora, potrebbe voler dire anche non essere sempre uguali a se stessi — ma essere fedeli a qualcosa di più profondo: un’intenzione, un valore, un equilibrio tra sincerità e intelligenza.
Conclusione: l’autenticità e il patto sociale
Essere se stessi, certo. Ma quale “sé” vogliamo mettere in circolo?
In fondo, come ci ricordava Freud ne Il disagio della civiltà, l’appartenenza a una società comporta inevitabilmente una rinuncia: non possiamo agire solo secondo ciò che ci viene spontaneo.
La civiltà — e forse anche la convivenza — esistono proprio grazie a questa tensione: tra ciò che siamo, ciò che potremmo essere, e ciò che decidiamo di mostrare.
Allora forse la vera autenticità non è spontaneità assoluta, ma consapevolezza delle maschere che indossiamo… e della ragione per cui, a volte, scegliamo di tenerle addosso.
E se essere autentici, oggi, volesse dire anche imparare a dissimulare con grazia?