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domenica 11 maggio 2025

Dimmi che sigla sei e ti dirò chi (non) sei

C’era un tempo in cui si era semplicemente tristi. Oggi si è affetti da disturbo depressivo maggiore, in comorbilità con l’ansia generalizzata. Se ti fa schifo un formicaio, potresti soffrire di tripofobia. Se non riesci a smettere di andare in palestra, hai la bigoressia. E se non sopporti chi mastica forte, sei misofonico. Ma siamo davvero diventati così complessi, o abbiamo solo imparato a chiamare ogni starnuto con un nome in latino?

La bulimia delle etichette
Viviamo in un’epoca in cui ogni sfumatura dell’esperienza umana deve essere catalogata, etichettata, legittimata. Le parole si moltiplicano: disturbo, condizione, sindrome, fobia, identità. Si passa con disinvoltura dal vissuto all’autodiagnosi. Chi non riesce a concentrarsi sospetta di avere l'ADHD, chi si sente "diverso" cerca uno spettro che lo contenga. Se ti riconosci in un elenco di sintomi su Instagram, benvenuto nel club.

Il fascino del nome
Dare un nome alle cose è un atto magico. Ma oggi il nome non descrive: sostituisce. L’etichetta diventa una scorciatoia: se so che sei misofonico, non ho più bisogno di comprenderti. La parola tecnica ti racchiude, ti inchioda. Invece di costruire empatia, chiude il discorso. E a forza di nominare tutto, si finisce col non capire più niente.

Rassicurazione e copyright
Etichettarsi rassicura. Vuol dire sapere chi si è. Ma è anche una forma di copyright identitario: rivendicare la propria originalità attraverso la distinzione. Come in una guerra di micro-brand, ognuno vuole la sua sigla, la sua bandiera, la sua esistenza riconosciuta. Il risultato? Una società di zattere linguistiche alla deriva, ciascuna con il proprio acronimo, che difficilmente riescono a parlarsi.

La burocrazia dell’identità
Nel mondo LGBTQ+, la sigla iniziale (già ampia e inclusiva) si allunga di continuo: LGBTQIA+, poi C, poi N, poi P. Un tempo movimento di liberazione, oggi rischia di diventare un ufficio anagrafe. L’intento è nobile: riconoscere ogni voce. Ma il risultato può essere l’opposto: labirinti semantici dove si finisce per confondersi, competere, dividersi. La fluidità si perde, e a volte si torna alla gabbia. Ma più elegante.

Quando nominare è troppo
Byung-Chul Han parla dell’infodemia dell’io: tutto dev'essere leggibile, dichiarato, etichettato. Anche il dolore. Anche il desiderio. Ma l'umano non è un sistema operativo. In questo affanno di chiarezza perdiamo il mistero. La capacità di tollerare l'opaco, lo sfocato, il non ancora detto. Non tutto ha bisogno di un nome. E forse, a volte, non c'eravamo davvero.

L'ironia
La canzone "Non c'eri" di Gianfranco Manfredi ironizzava già negli anni '70 sulla proliferazione di sigle e appartenenze. Un catalogo parodico che anticipava il nostro presente: più le identità si moltiplicano, più si svuotano. Come a dire: siamo così occupati a essere riconoscibili che dimentichiamo di essere riconoscibili anche nel silenzio, nella sfumatura, nel dubbio.


(A proposito, l'immagine a corredo sotto non è una macedonia, è un convegno di identità!)