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domenica 22 giugno 2025

Il Tamburo del Nulla (Giobbe e lo scimpanzè)

Ogni epoca ha la sua forma di idolatria. La nostra si chiama “spiegazione”. Di fronte a un comportamento enigmatico, il primo riflesso non è più la contemplazione, ma la dissezione. Se una scimmia lancia sassi contro un tronco, vogliamo subito sapere perché. Se non troviamo risposta utile, ci affrettiamo a chiudere il caso: “lo fa per il suono”. Come dire: fine del mistero.

Eppure, basterebbe poco per capovolgere la domanda: e se proprio quel “suono” fosse il mistero?

Alcuni scimpanzé dell’Africa occidentale sono stati osservati in un comportamento curioso e ripetuto: raccolgono pietre e le scagliano contro alberi specifici. Il gesto si ripete, non porta vantaggi evidenti, e talvolta lascia dietro di sé piccoli accumuli di pietre, come edicole grezze. L’interpretazione dominante — oggi — è che tutto ciò sia frutto di piacere sensoriale. Come bambini che fanno “toc toc” sul tavolo.

Ma da quando in qua un comportamento “gratuito” è automaticamente privo di significato?

Nel gesto reiterato, disinteressato, condiviso e trasmesso ci sono già i tratti fondamentali del rituale. Certo, non troviamo simboli scritti, né narrazioni teologiche. Ma pretendere questi elementi per riconoscere un culto è come negare che un neonato stia comunicando solo perché non parla.

Non sappiamo cosa significhi quel gesto, ma escludere che significhi qualcosa è un atto di arroganza epistemologica.

C’è poi un dettaglio che complica le cose: alcuni di quegli stessi scimpanzé sono stati osservati mentre curavano le ferite di un compagno applicandovi foglie masticate — con attenzione, con costanza, senza tornaconto. Non solo un gesto empatico, ma un gesto codificato, sociale, condiviso.

In fondo, anche questo è un rito: un’applicazione simbolica su un corpo dolente. Come l’olio sul capo, come la cenere sulla fronte, come l’acqua sul neonato. La cura, prima della religione, è già sacramento.

E allora si forma un triangolo inaspettato: il ritmo del sasso, il balsamo della foglia, lo sguardo dell’altro. Non c’è fede, forse. Ma c’è forma. Non c’è parola, ma c’è eco. E questo dovrebbe bastare a farci tacere, almeno per un momento, il nostro bisogno compulsivo di spiegare.

Perché ciò che non sappiamo ancora nominare, non è detto che non esista.

Nel Libro di Giobbe, Dio alla fine non risponde con concetti, ma con una tempesta. Non spiega, non consola: tuona. E Giobbe tace. Anche lo scimpanzé tace, ma colpisce. Fa risuonare il legno e attende. Non un dio, ma un suono. Non un miracolo, ma una vibrazione.

Forse la spiritualità non nasce dal bisogno di comprendere, ma dall’urgenza di battere qualcosa — un tronco, un petto, un cuore — finché non risuona.

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punto di partenza: Chimps create ‘rock music' by throwing stones at trees

https://www.science.org/content/article/chimps-create-rock-music-throwing-stones-trees


punto di arrivo di questa tappa: Il Libro di Giobbe, capitolo 38: “Dov’eri tu quando io fondavo la terra?”. Dio non dà spiegazioni a Giobbe, ma lo travolge con la potenza della creazione. Un Dio che rimbomba, più che parlare. Come il suono sordo di un sasso contro un tronco.

domenica 1 giugno 2025

Gesù non ha preso l’ascensore. O forse sì?

Ogni anno, nel giorno dell’Ascensione, c’è chi – dal pulpito o nei commenti sociali – sente il bisogno di puntualizzare: “Non immaginiamoci Gesù che prende l’ascensore e sale su”. È un modo per evitare il ridicolo, certo. Per non far pensare che davvero crediamo che un uomo sia “salito su nel cielo”. Ma cosa c’è dietro questa prudenza?

Viviamo in un’epoca in cui anche

i credenti faticano ad accettare il soprannaturale. È come se la fede dovesse sempre passare l’esame della razionalità moderna, come se fosse offensivo, o peggio, infantile, credere che il corpo glorificato del Risorto possa davvero ascendere, con tutto ciò che implica. E allora si corre ai ripari: l’ascensione è “metafora di distacco”, “simbolo di trascendenza”, “immagine poetica del ritorno al Padre”. Tutto vero, forse. Ma è sufficiente?

Se ogni gesto di Gesù diventa una parabola da interpretare, e non un evento da accogliere, che cosa rimane? Anche le nozze di Cana – l’acqua diventata vino – saranno solo metafora di gioia, anche la moltiplicazione dei pani diventerà un’allegoria della condivisione, anche le guarigioni saranno effetti placebo. È un cristianesimo “civilizzato”, senz’altro compatibile con l’intelligenza contemporanea, ma forse privo della sua potenza originaria.

C’è un passaggio sottile ma decisivo: quando il soprannaturale diventa imbarazzante, lo si relega nel regno delle immagini.

Ma la fede cristiana – a differenza di molte filosofie – è fede in una carne che diventa cielo. In un Dio che si fa corpo, e in un corpo che trasfigura la materia fino ad attraversare le porte chiuse. L’ascensione, in questo senso, è scandalo e promessa. È il segno che il destino umano non è il compostaggio, ma la partecipazione alla gloria.

Negare questo, non per polemica ma per pudore, significa ridurre la fede a un’educazione sentimentale. Un cristianesimo depotenziato, senza miracoli, senza angeli, senza resurrezione, è solo uno stoicismo rivisitato.

Ma il Dio dei Vangeli non è venuto a migliorarci. È venuto a strapparci dal buio con gesti che nessuna metafora può contenere.

Certo, Gesù non ha preso un ascensore.

Ma ha preso sul serio il nostro corpo.

E lo ha portato là dove non ci saremmo mai aspettati.


(Sant’Agostino, nei suoi scritti sull’Incarnazione e la Resurrezione, ricorda che “la carne, che era schiava, è salita al trono”. L’ascensione non è allora un saluto, ma l’intronizzazione dell’umano nell’eterno. Il contrario dell’allegoria: è la carne che osa.)