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sabato 30 agosto 2025

Carcere per cellulari e altre paure antiche

Mi diverte il pensiero che il prossimo passo, dopo il divieto dei cellulari a scuola, sarà l’istituzione di una guardia armata davanti a ogni armadietto numerato. O, più semplicemente, il ritorno dei sorveglianti con registro in mano, pronti a spuntare i trasgressori come in un collegio ottocentesco. Il paradosso, in fondo, è che ci piace crederci più sicuri quando il problema è ridotto a un oggetto da sequestrare.

Il paradosso educativo

Vietiamo i cellulari per proteggere i ragazzi dalla distrazione, ma continuiamo a offrire loro lezioni incapaci di competere con quei rettangolini luminosi che portano in tasca. La tecnologia diventa il capro espiatorio di un’istituzione che fatica a parlare il linguaggio dei suoi studenti. Invece di “disarmarli”, forse dovremmo imparare ad armarci noi, docenti e adulti, di un lessico più vivo, di narrazioni che sappiano sedurre quanto un video su TikTok.

Il ritorno del proibizionismo

Ogni divieto, si sa, genera un mercato nero. Prevedo il nascere di nuove forme di contrabbando scolastico: cellulari barattati per panini alla mensa, compiti svolti in cambio di dieci minuti di Wi-Fi clandestino. L'ora di "spaccio digitale" diventerà il nuovo rito iniziatico, con i più scaltri a fare da pusher di gigabyte, mentre i più ligi fingeranno indignazione. L’ordine apparente, che il divieto promette, rischia di trasformarsi in un gioco a guardie e ladri che nulla ha a che fare con l’educazione.

La macchina del controllo

E così, per dire “niente smartphone”, si mette in moto un apparato di controllo degno di uno stato maggiore: armadietti da presidiare, docenti trasformati in poliziotti, bidelli arruolati come ispettori di tasche, circolari su circolari, sanzioni calibrate al grammo. Il rischio di scivolare in un eccesso di regolazione, dove il gesto educativo si perde dietro l’ansia del controllo. Vale davvero la candela? Non sarebbe più sensato usare quell’energia per costruire una didattica capace di catturare l’attenzione dei ragazzi, invece di blindare un’aula come fosse un carcere di massima sicurezza?

Una storia che si ripete

Non è la prima volta che demonizziamo la tecnologia. Platone, nel "Fedro", racconta del faraone Thamus che rimprovera il dio Theuth per aver inventato la scrittura: avrebbe indebolito la memoria, reso gli uomini più superficiali. Secoli dopo, con Gutenberg, la stampa diventa la minaccia che avrebbe disgregato l’ordine sociale. Negli anni ’70 e ’80, la calcolatrice elettronica era vista come il nemico mortale del pensiero matematico. Poi è stata la volta dei computer, accusati di spegnere le menti, e dei videogiochi, pronti a rendere asociali intere generazioni. Oggi tocca agli smartphone. Ogni epoca ha avuto il suo demone. E ogni volta, quel demone si è trasformato in strumento di cultura, civiltà, progresso.

La nostra schizofrenia digitale

Vietiamo i telefoni in classe per combattere la dipendenza digitale, ma poi affidiamo la gestione di ogni cosa — registro elettronico, comunicazioni scuola-famiglia, prenotazioni dei colloqui, notifiche — a piattaforme digitali. È una schizofrenia adulta che non vogliamo riconoscere: demonizziamo ciò che ci sfugge e sacralizziamo ciò che ci serve.

Infine

Non scrivo per difendere il “telefono libero”, né per celebrare l’onnipotenza degli algoritmi. Scrivo per ricordare che la tecnologia non è mai il problema: lo è il nostro rapporto con essa. Se la scuola impara a integrarla senza idolatrarla né demonizzarla, il divieto non serve più. E il telefono, come la scrittura, la stampa o la calcolatrice, diventa ciò che è sempre stato: uno strumento.



il disagio che nasce dall'agio

smart phood


mercoledì 20 agosto 2025

Canottiera contro radar: la tragica farsa della sicurezza stradale

Ogni estate si rinnova il rituale del sangue sull’asfalto. Un richiamo crudele che annuncia le vacanze con i lampeggianti azzurri. Spesso le vittime sono motociclisti o ciclisti, figure sempre più isolate in un mondo che si finge protetto. Perché se è vero che oggi le auto frenano da sole, avvertono colpi di sonno e mantengono la corsia meglio di chi le guida, è altrettanto vero che queste stesse auto circolano accanto a esseri umani praticamente nudi, in equilibrio su due ruote, protetti solo da un casco e dall’incoscienza.

La tecnologia della sicurezza cresce, ma la convivenza tra chi è dentro una capsula protettiva e chi ne è fuori diventa ogni giorno più grottesca. Come se l’industria automobilistica, gonfiando di sensori le sue creature, si fosse dimenticata che là fuori non ci sono solo altre auto. Ma anche corpi fragili, pelle esposta, ossa scoperte.

Ci si domanda allora perché tanti scelgano ancora di affrontare la strada così, in canottiera, senza difese. Non è solo incoscienza o desiderio di libertà. Spesso è una necessità legata a esigenze economiche o di lavoro l’essere umano contro il mondo, il corpo contro il metallo.

Ma il paradosso resta: più proteggiamo le macchine, più diventano pericolose per chi non lo è. La convivenza è sbilanciata. Come se in una piscina olimpica si gareggiasse fianco a fianco tra chi indossa il costume da gara e chi il giubbotto antiproiettile.

Il problema non è solo tecnico, ma culturale. Siamo intrisi di un’ossessione per il controllo, la performance, l’efficienza. Il veicolo perfetto è quello che sa tutto, prevede tutto, corregge tutto. Ma questa bulimia di protezione – l’ossessione collettiva per una sicurezza totale, misurabile, tecnologicamente mediata – genera, per contrasto, zone di totale vulnerabilità. Più perfezioniamo i dispositivi per evitare gli errori, più rendiamo letali le conseguenze per chi non dispone di alcuna interfaccia protettiva. È una forma di paradossale disuguaglianza: la sicurezza, da diritto universale, si trasforma in privilegio selettivo. E chi ne resta fuori, letteralmente fuori dall’abitacolo, diventa invisibile o, peggio, sacrificabile. Il ciclista non è un residuo, ma una vittima sistemica.

È come se l’intera società avesse delegato la sicurezza alla macchina, dimenticandosi del corpo. Quello vero. Quello che suda, cade, si rompe. Quello che in estate va in giro in mutande, ma continua ad avere lo stesso diritto di stare in strada.


**Hannah Arendt ci ricordava come la libertà non si esercita nella solitudine o nella protezione assoluta, ma nella presenza fragile tra gli altri. In strada, questa fragilità è il punto cieco della nostra civiltà.

La domanda non è come rendere più sicure le auto, ma come restituire dignità, e spazio, a chi sceglie di non averne una.


Col sangue negli occhi

domenica 3 agosto 2025

Più personale per il caffè che per il conto

Varco la soglia di un grande ipermercato di elettronica. L’aria è tersa, vagamente asettica. Mi aggiro tra le macchine da caffè e una giovane donna — sorridente, premurosa, bardata di tablet — si avvicina:

“Se acquista oggi, ha diritto a un buono per sei confezioni di caffè. La registriamo subito?”

Accetto, per cortesia e per curiosità. E parte la liturgia: mail, dati, consensi, scelte su aromi e frequenze. Una seconda addetta prende il testimone, mi guida nel creare un account, selezionare un pacchetto (un “bundle”?). Una terza mi accompagna al banco.

Sono tutte hostess, temporanee, assunte per gestire questa promozione. Lavorano per il caffè, non per la macchina. Per l’accessorio, non per il bene principale di cui si occuperebbe l’ipermercato di elettronica.

Nel frattempo, al banco della cassa — uno solo — si snoda una fila. È lunga, lenta. Tutti in attesa per pagare. Non per scegliere, non per consultare: solo per pagare.

E lì, dietro la cassa, l’unico dipendente dell’intero negozio: l’unico che risponde all’azienda, l’unico che ha un ruolo strutturale.

Mi colpisce la sproporzione. Tre figure per l’operazione accessoria, una sola per l’unico adempimento necessario.


Il “lavoro” si è spostato.

Non consiste più nel realizzare un bene, né nell’assistere nell’acquisto. Consiste nel presidiare procedure di fidelizzazione, produrre click, generare dati, convertire esperienze semplici in sequenze macchinose.

Un tempo, l’operaio produceva un oggetto. Il commesso consigliava un acquisto. L’artigiano aggiungeva valore alla materia. Oggi il valore sembra evaporare, lasciando solo la scia del processo.

E chi lavora non genera più risultati, ma filtra flussi, sorveglia passaggi, avanza richieste che non ha scritto e raccoglie risposte che non comprende.

Il mondo del lavoro non è più nemmeno luogo di conflitto o fatica: è diventato un dispositivo impersonale, che regola flussi e automatismi.

Pasolini avrebbe forse detto che anche il lavoro, come il sesso o la religione, è stato ridotto a una caricatura di sé.

E così ci troviamo più personale per il caffè che per il conto, mentre la macchina che volevamo acquistare resta sullo sfondo, oggetto mutato in pretesto.


Per approfondire:
"Caos Mercato del Lavoro", dove già riflettevo su come i troppi attori e linguaggi rendano il lavoro una giostra burocratica più che un percorso produttivo.