Varco la soglia di un grande ipermercato di elettronica. L’aria è tersa, vagamente asettica. Mi aggiro tra le macchine da caffè e una giovane donna — sorridente, premurosa, bardata di tablet — si avvicina:
“Se acquista oggi, ha diritto a un buono per sei confezioni di caffè. La registriamo subito?”
Accetto, per cortesia e per curiosità. E parte la liturgia: mail, dati, consensi, scelte su aromi e frequenze. Una seconda addetta prende il testimone, mi guida nel creare un account, selezionare un pacchetto (un “bundle”?). Una terza mi accompagna al banco.
Sono tutte hostess, temporanee, assunte per gestire questa promozione. Lavorano per il caffè, non per la macchina. Per l’accessorio, non per il bene principale di cui si occuperebbe l’ipermercato di elettronica.
Nel frattempo, al banco della cassa — uno solo — si snoda una fila. È lunga, lenta. Tutti in attesa per pagare. Non per scegliere, non per consultare: solo per pagare.
E lì, dietro la cassa, l’unico dipendente dell’intero negozio: l’unico che risponde all’azienda, l’unico che ha un ruolo strutturale.
Mi colpisce la sproporzione. Tre figure per l’operazione accessoria, una sola per l’unico adempimento necessario.
Il “lavoro” si è spostato.
Non consiste più nel realizzare un bene, né nell’assistere nell’acquisto. Consiste nel presidiare procedure di fidelizzazione, produrre click, generare dati, convertire esperienze semplici in sequenze macchinose.
Un tempo, l’operaio produceva un oggetto. Il commesso consigliava un acquisto. L’artigiano aggiungeva valore alla materia. Oggi il valore sembra evaporare, lasciando solo la scia del processo.E chi lavora non genera più risultati, ma filtra flussi, sorveglia passaggi, avanza richieste che non ha scritto e raccoglie risposte che non comprende.
Il mondo del lavoro non è più nemmeno luogo di conflitto o fatica: è diventato un dispositivo impersonale, che regola flussi e automatismi.
Pasolini avrebbe forse detto che anche il lavoro, come il sesso o la religione, è stato ridotto a una caricatura di sé.
E così ci troviamo più personale per il caffè che per il conto, mentre la macchina che volevamo acquistare resta sullo sfondo, oggetto mutato in pretesto.
Per approfondire:
"Caos
Mercato del Lavoro", dove già riflettevo su come i
troppi attori e linguaggi rendano il lavoro una giostra burocratica più che un
percorso produttivo.
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