L’insistenza non gode di buona fama. È spesso confusa con la petulanza, l’ostinazione, il fastidio. Eppure, nelle Letture di questa domenica, l’insistenza si rivela parente stretta della fede. Mosè che tiene le braccia alzate fino al tramonto, Paolo che esorta ad annunciare la Parola “opportune e importune”, e la vedova che perseguita il giudice disonesto: tutti insistono, tutti credono. Forse perché la fede, se non insiste, evapora.
Non c’è nulla di più controcorrente, oggi, dell’insistenza. Viviamo in un’epoca che premia la leggerezza, l’ironia, il saper lasciar andare. Chi insiste è un fissato, un rigido, un disturbatore.
Eppure Mosè, con le braccia tese fino al tramonto, non rappresenta un gesto eroico ma un gesto insistente: ripetuto, faticoso, scomodo, persino monotono. È la fede come resistenza fisica, come muscolo che non si arrende al dolore. Non basta credere una volta sola: bisogna restare nella posizione del credente, anche quando la postura fa male.
Nella parabola di Luca, una vedova chiede giustizia a un giudice disonesto. Non ha potere, non ha denaro, non ha difensori. Le resta solo l’insistenza. E proprio quell’insistenza — apparentemente sgarbata — diventa il suo linguaggio di fede.
Perché si insiste solo se e quando si crede che qualcuno, da qualche parte, possa ascoltare. Anche la fede, se vogliamo, è una forma di disturbo altrui: un bussare ostinato alla porta di Dio, come chi non si rassegna a un silenzio.
San Paolo invita Timoteo a “insistere al momento opportuno e non opportuno”. È un paradosso educativo: parlare anche quando nessuno vuole ascoltare, quando le parole sembrano cadere nel vuoto. La fede, in questo senso, è il contrario del tatto. Non aspetta il momento giusto: lo crea.
Forse, allora, i santi sono stati tutti un po’ maleducati. Hanno pregato troppo, parlato troppo, disturbato troppo. Hanno continuato a credere anche quando la buona educazione avrebbe suggerito di smettere.
E Dio — che evidentemente non teme gli insistenti — non li ha mai zittiti.
Come un innamorato che non si dà per vinto, si sarebbe detto una volta. Oggi si rischia apologia di molestia.
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