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sabato 26 luglio 2025

L’Intelligenza Artificiale è radioattiva (ma non brilla al buio)

Negli anni Quaranta, la fisica smise di essere una scienza contemplativa e divenne – di colpo – un atto politico. Con la fissione nucleare, l’umanità toccò il limite estremo: la possibilità di autodistruggersi. Ma anche di alimentare città, ospedali, industrie.

L’intelligenza artificiale non ha prodotto un “bang” visibile, ma l’onda d’urto è già qui: lavoro, scuola, medicina, relazioni...tutto è investito da una trasformazione rapida, silenziosa, ma radicale.
Come nel caso del nucleare, ci troviamo davanti a un bivio non solo tecnico, ma antropologico.

Due scoperte, un solo bivio:

  • Distruzione o rigenerazione

  • Controllo di massa o emancipazione collettiva

  • Efficienza senz’anima o tempo liberato per la creatività

  • Paura del nuovo o governo consapevole del cambiamento

Ma attenzione: come l’atomo, anche l’algoritmo non decide da solo.
Il vero rischio non è che l’AI “ci rubi il lavoro”, bensì che noi le consegniamo – con gratitudine – la nostra coscienza.                                                                                                


La delega morale è già iniziata.
Chi decide chi viene assunto? L’algoritmo.
Chi decide che contenuti vedere? L’algoritmo.
Chi ci suggerisce come parlare, scrivere, persino pensare? L’algoritmo.
E intanto, a noi restano le “scelte” residuali: cliccare “sì” o “no”, come nei sondaggi di gradimento.

La tecnologia, da sempre, è uno specchio.
E come scriveva Hannah Arendt, non è il male banale a minacciarci, ma l’ottundimento del giudizio.
Un uomo che non pensa non diventa un mostro: diventa una rotella efficiente in un ingranaggio disumano.

Per questo, più che temere l’AI, dovremmo temere la nostra indifferenza.
Non sarà una macchina a decidere se liberare l’umanità o asservirla.
Saremo noi, come sempre.
Noi, uomini e donne di buona volontà.

mercoledì 23 luglio 2025

Fermi tutti, parla un semita (Quando la voce del dolore diventa coraggio civile)

1. Il coraggio di rompere il silenzio

Ci sono dichiarazioni che suonano già sentite, protocollari. E poi ce ne sono altre che hanno il sapore di qualcosa di inedito. Martedì 22 luglio è accaduto questo. Un gesto sobrio, una voce chiara. Eppure un terremoto.

Il Cardinale Matteo Zuppi e Daniele De Paz, Presidente della Comunità Ebraica di Bologna, hanno firmato insieme una dichiarazione sulla guerra a Gaza. Ma non si sono limitati a chiedere la pace. Hanno parlato con parole che scottano. Hanno condannato le armi, chiesto la liberazione degli ostaggi, la fine delle occupazioni, l’apertura di corridoi umanitari. Hanno detto che “nessuna sicurezza sarà mai costruita sull’odio” e che “la pace è sempre possibile”. Parole che pesano, ma non come pietre. Piuttosto come semi.

2. Quando la compassione sfida la paura

In tempi di polarizzazione estrema, ogni parola sembra una trappola. Per questo, negli ambienti ufficiali, prevale la cautela. Si pesano le virgole, si temono le strumentalizzazioni. Ecco perché colpisce il gesto di Daniele De Paz. Perché rompe una consuetudine di prudenza quasi sacrale nelle comunità ebraiche italiane, che da sempre si muovono con comprensibile timore attorno a ogni giudizio pubblico sul Medio Oriente.

Eppure, proprio nel momento in cui la comunità ebraica si sente ferita, assediata, isolata — e quindi naturalmente portata alla chiusura — proprio ora, questa voce si apre, si espone. Non è debolezza. È l'opposto: è fedeltà alla sofferenza del proprio popolo senza cedere alla logica della vendetta. È compassione che non conosce confini.

3. La voce dell’altro come forma più alta di fedeltà

“Chi salva una vita, salva il mondo intero”, dice un proverbio della tradizione ebraica, ripreso anche nel Corano. La dichiarazione bolognese sembra rifarsi proprio a questo spirito. Perché è possibile amare il proprio popolo e piangere anche per gli altri. È possibile sentirsi minacciati e tuttavia restare umani. È possibile dire “io sto con Israele” e al tempo stesso dire “pietà per Gaza”.

Certo, è difficile. Ma è la sola via. Perché il vero nemico non è l’altro popolo. È il cinismo, l’odio, l’identità che si costruisce sulla paura. E allora sì, il dolore può unire. E il dialogo non è debolezza: è l’unico modo di essere forti senza essere brutali.

4. Chi salva una voce, salva un popolo

Il gesto del Presidente De Paz resterà forse isolato. Forse sarà criticato. Forse passerà sotto silenzio. Ma è una voce che merita di essere ascoltata. Perché ci mostra qualcosa che abbiamo quasi dimenticato: la politica non è tutta strategia. È anche, ogni tanto, testimonianza. E la fede — ebraica o cristiana o islamica — non è solo appartenenza. È anche, e soprattutto, capacità di vedere l’uomo nell’altro.

Hannah Arendt, riflettendo sul male radicale, scrisse che esso si nutre di assenza di pensiero. Ma anche il bene può essere radicale, quando nasce da un pensiero che osa — e da una parola che si fa carne. Quella pronunciata a Bologna, in fondo, è questo: una parola fatta carne, nella città di Pasolini. E, forse, anche per questo, più vera.