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mercoledì 20 agosto 2025

Canottiera contro radar: la tragica farsa della sicurezza stradale

Ogni estate si rinnova il rituale del sangue sull’asfalto. Un richiamo crudele che annuncia le vacanze con i lampeggianti azzurri. Spesso le vittime sono motociclisti o ciclisti, figure sempre più isolate in un mondo che si finge protetto. Perché se è vero che oggi le auto frenano da sole, avvertono colpi di sonno e mantengono la corsia meglio di chi le guida, è altrettanto vero che queste stesse auto circolano accanto a esseri umani praticamente nudi, in equilibrio su due ruote, protetti solo da un casco e dall’incoscienza.

La tecnologia della sicurezza cresce, ma la convivenza tra chi è dentro una capsula protettiva e chi ne è fuori diventa ogni giorno più grottesca. Come se l’industria automobilistica, gonfiando di sensori le sue creature, si fosse dimenticata che là fuori non ci sono solo altre auto. Ma anche corpi fragili, pelle esposta, ossa scoperte.

Ci si domanda allora perché tanti scelgano ancora di affrontare la strada così, in canottiera, senza difese. Non è solo incoscienza o desiderio di libertà. Spesso è una necessità legata a esigenze economiche o di lavoro l’essere umano contro il mondo, il corpo contro il metallo.

Ma il paradosso resta: più proteggiamo le macchine, più diventano pericolose per chi non lo è. La convivenza è sbilanciata. Come se in una piscina olimpica si gareggiasse fianco a fianco tra chi indossa il costume da gara e chi il giubbotto antiproiettile.

Il problema non è solo tecnico, ma culturale. Siamo intrisi di un’ossessione per il controllo, la performance, l’efficienza. Il veicolo perfetto è quello che sa tutto, prevede tutto, corregge tutto. Ma questa bulimia di protezione – l’ossessione collettiva per una sicurezza totale, misurabile, tecnologicamente mediata – genera, per contrasto, zone di totale vulnerabilità. Più perfezioniamo i dispositivi per evitare gli errori, più rendiamo letali le conseguenze per chi non dispone di alcuna interfaccia protettiva. È una forma di paradossale disuguaglianza: la sicurezza, da diritto universale, si trasforma in privilegio selettivo. E chi ne resta fuori, letteralmente fuori dall’abitacolo, diventa invisibile o, peggio, sacrificabile. Il ciclista non è un residuo, ma una vittima sistemica.

È come se l’intera società avesse delegato la sicurezza alla macchina, dimenticandosi del corpo. Quello vero. Quello che suda, cade, si rompe. Quello che in estate va in giro in mutande, ma continua ad avere lo stesso diritto di stare in strada.


**Hannah Arendt ci ricordava come la libertà non si esercita nella solitudine o nella protezione assoluta, ma nella presenza fragile tra gli altri. In strada, questa fragilità è il punto cieco della nostra civiltà.

La domanda non è come rendere più sicure le auto, ma come restituire dignità, e spazio, a chi sceglie di non averne una.


Col sangue negli occhi

domenica 3 agosto 2025

Più personale per il caffè che per il conto

Varco la soglia di un grande ipermercato di elettronica. L’aria è tersa, vagamente asettica. Mi aggiro tra le macchine da caffè e una giovane donna — sorridente, premurosa, bardata di tablet — si avvicina:

“Se acquista oggi, ha diritto a un buono per sei confezioni di caffè. La registriamo subito?”

Accetto, per cortesia e per curiosità. E parte la liturgia: mail, dati, consensi, scelte su aromi e frequenze. Una seconda addetta prende il testimone, mi guida nel creare un account, selezionare un pacchetto (un “bundle”?). Una terza mi accompagna al banco.

Sono tutte hostess, temporanee, assunte per gestire questa promozione. Lavorano per il caffè, non per la macchina. Per l’accessorio, non per il bene principale di cui si occuperebbe l’ipermercato di elettronica.

Nel frattempo, al banco della cassa — uno solo — si snoda una fila. È lunga, lenta. Tutti in attesa per pagare. Non per scegliere, non per consultare: solo per pagare.

E lì, dietro la cassa, l’unico dipendente dell’intero negozio: l’unico che risponde all’azienda, l’unico che ha un ruolo strutturale.

Mi colpisce la sproporzione. Tre figure per l’operazione accessoria, una sola per l’unico adempimento necessario.


Il “lavoro” si è spostato.

Non consiste più nel realizzare un bene, né nell’assistere nell’acquisto. Consiste nel presidiare procedure di fidelizzazione, produrre click, generare dati, convertire esperienze semplici in sequenze macchinose.

Un tempo, l’operaio produceva un oggetto. Il commesso consigliava un acquisto. L’artigiano aggiungeva valore alla materia. Oggi il valore sembra evaporare, lasciando solo la scia del processo.

E chi lavora non genera più risultati, ma filtra flussi, sorveglia passaggi, avanza richieste che non ha scritto e raccoglie risposte che non comprende.

Il mondo del lavoro non è più nemmeno luogo di conflitto o fatica: è diventato un dispositivo impersonale, che regola flussi e automatismi.

Pasolini avrebbe forse detto che anche il lavoro, come il sesso o la religione, è stato ridotto a una caricatura di sé.

E così ci troviamo più personale per il caffè che per il conto, mentre la macchina che volevamo acquistare resta sullo sfondo, oggetto mutato in pretesto.


Per approfondire:
"Caos Mercato del Lavoro", dove già riflettevo su come i troppi attori e linguaggi rendano il lavoro una giostra burocratica più che un percorso produttivo.

sabato 26 luglio 2025

L’Intelligenza Artificiale è radioattiva (ma non brilla al buio)

Negli anni Quaranta, la fisica smise di essere una scienza contemplativa e divenne – di colpo – un atto politico. Con la fissione nucleare, l’umanità toccò il limite estremo: la possibilità di autodistruggersi. Ma anche di alimentare città, ospedali, industrie.

L’intelligenza artificiale non ha prodotto un “bang” visibile, ma l’onda d’urto è già qui: lavoro, scuola, medicina, relazioni...tutto è investito da una trasformazione rapida, silenziosa, ma radicale.
Come nel caso del nucleare, ci troviamo davanti a un bivio non solo tecnico, ma antropologico.

Due scoperte, un solo bivio:

  • Distruzione o rigenerazione

  • Controllo di massa o emancipazione collettiva

  • Efficienza senz’anima o tempo liberato per la creatività

  • Paura del nuovo o governo consapevole del cambiamento

Ma attenzione: come l’atomo, anche l’algoritmo non decide da solo.
Il vero rischio non è che l’AI “ci rubi il lavoro”, bensì che noi le consegniamo – con gratitudine – la nostra coscienza.                                                                                                


La delega morale è già iniziata.
Chi decide chi viene assunto? L’algoritmo.
Chi decide che contenuti vedere? L’algoritmo.
Chi ci suggerisce come parlare, scrivere, persino pensare? L’algoritmo.
E intanto, a noi restano le “scelte” residuali: cliccare “sì” o “no”, come nei sondaggi di gradimento.

La tecnologia, da sempre, è uno specchio.
E come scriveva Hannah Arendt, non è il male banale a minacciarci, ma l’ottundimento del giudizio.
Un uomo che non pensa non diventa un mostro: diventa una rotella efficiente in un ingranaggio disumano.

Per questo, più che temere l’AI, dovremmo temere la nostra indifferenza.
Non sarà una macchina a decidere se liberare l’umanità o asservirla.
Saremo noi, come sempre.
Noi, uomini e donne di buona volontà.

mercoledì 23 luglio 2025

Fermi tutti, parla un semita (Quando la voce del dolore diventa coraggio civile)

1. Il coraggio di rompere il silenzio

Ci sono dichiarazioni che suonano già sentite, protocollari. E poi ce ne sono altre che hanno il sapore di qualcosa di inedito. Martedì 22 luglio è accaduto questo. Un gesto sobrio, una voce chiara. Eppure un terremoto.

Il Cardinale Matteo Zuppi e Daniele De Paz, Presidente della Comunità Ebraica di Bologna, hanno firmato insieme una dichiarazione sulla guerra a Gaza. Ma non si sono limitati a chiedere la pace. Hanno parlato con parole che scottano. Hanno condannato le armi, chiesto la liberazione degli ostaggi, la fine delle occupazioni, l’apertura di corridoi umanitari. Hanno detto che “nessuna sicurezza sarà mai costruita sull’odio” e che “la pace è sempre possibile”. Parole che pesano, ma non come pietre. Piuttosto come semi.

2. Quando la compassione sfida la paura

In tempi di polarizzazione estrema, ogni parola sembra una trappola. Per questo, negli ambienti ufficiali, prevale la cautela. Si pesano le virgole, si temono le strumentalizzazioni. Ecco perché colpisce il gesto di Daniele De Paz. Perché rompe una consuetudine di prudenza quasi sacrale nelle comunità ebraiche italiane, che da sempre si muovono con comprensibile timore attorno a ogni giudizio pubblico sul Medio Oriente.

Eppure, proprio nel momento in cui la comunità ebraica si sente ferita, assediata, isolata — e quindi naturalmente portata alla chiusura — proprio ora, questa voce si apre, si espone. Non è debolezza. È l'opposto: è fedeltà alla sofferenza del proprio popolo senza cedere alla logica della vendetta. È compassione che non conosce confini.

3. La voce dell’altro come forma più alta di fedeltà

“Chi salva una vita, salva il mondo intero”, dice un proverbio della tradizione ebraica, ripreso anche nel Corano. La dichiarazione bolognese sembra rifarsi proprio a questo spirito. Perché è possibile amare il proprio popolo e piangere anche per gli altri. È possibile sentirsi minacciati e tuttavia restare umani. È possibile dire “io sto con Israele” e al tempo stesso dire “pietà per Gaza”.

Certo, è difficile. Ma è la sola via. Perché il vero nemico non è l’altro popolo. È il cinismo, l’odio, l’identità che si costruisce sulla paura. E allora sì, il dolore può unire. E il dialogo non è debolezza: è l’unico modo di essere forti senza essere brutali.

4. Chi salva una voce, salva un popolo

Il gesto del Presidente De Paz resterà forse isolato. Forse sarà criticato. Forse passerà sotto silenzio. Ma è una voce che merita di essere ascoltata. Perché ci mostra qualcosa che abbiamo quasi dimenticato: la politica non è tutta strategia. È anche, ogni tanto, testimonianza. E la fede — ebraica o cristiana o islamica — non è solo appartenenza. È anche, e soprattutto, capacità di vedere l’uomo nell’altro.

Hannah Arendt, riflettendo sul male radicale, scrisse che esso si nutre di assenza di pensiero. Ma anche il bene può essere radicale, quando nasce da un pensiero che osa — e da una parola che si fa carne. Quella pronunciata a Bologna, in fondo, è questo: una parola fatta carne, nella città di Pasolini. E, forse, anche per questo, più vera.



domenica 22 giugno 2025

Il Tamburo del Nulla (Giobbe e lo scimpanzè)

Ogni epoca ha la sua forma di idolatria. La nostra si chiama “spiegazione”. Di fronte a un comportamento enigmatico, il primo riflesso non è più la contemplazione, ma la dissezione. Se una scimmia lancia sassi contro un tronco, vogliamo subito sapere perché. Se non troviamo risposta utile, ci affrettiamo a chiudere il caso: “lo fa per il suono”. Come dire: fine del mistero.

Eppure, basterebbe poco per capovolgere la domanda: e se proprio quel “suono” fosse il mistero?

Alcuni scimpanzé dell’Africa occidentale sono stati osservati in un comportamento curioso e ripetuto: raccolgono pietre e le scagliano contro alberi specifici. Il gesto si ripete, non porta vantaggi evidenti, e talvolta lascia dietro di sé piccoli accumuli di pietre, come edicole grezze. L’interpretazione dominante — oggi — è che tutto ciò sia frutto di piacere sensoriale. Come bambini che fanno “toc toc” sul tavolo.

Ma da quando in qua un comportamento “gratuito” è automaticamente privo di significato?

Nel gesto reiterato, disinteressato, condiviso e trasmesso ci sono già i tratti fondamentali del rituale. Certo, non troviamo simboli scritti, né narrazioni teologiche. Ma pretendere questi elementi per riconoscere un culto è come negare che un neonato stia comunicando solo perché non parla.

Non sappiamo cosa significhi quel gesto, ma escludere che significhi qualcosa è un atto di arroganza epistemologica.

C’è poi un dettaglio che complica le cose: alcuni di quegli stessi scimpanzé sono stati osservati mentre curavano le ferite di un compagno applicandovi foglie masticate — con attenzione, con costanza, senza tornaconto. Non solo un gesto empatico, ma un gesto codificato, sociale, condiviso.

In fondo, anche questo è un rito: un’applicazione simbolica su un corpo dolente. Come l’olio sul capo, come la cenere sulla fronte, come l’acqua sul neonato. La cura, prima della religione, è già sacramento.

E allora si forma un triangolo inaspettato: il ritmo del sasso, il balsamo della foglia, lo sguardo dell’altro. Non c’è fede, forse. Ma c’è forma. Non c’è parola, ma c’è eco. E questo dovrebbe bastare a farci tacere, almeno per un momento, il nostro bisogno compulsivo di spiegare.

Perché ciò che non sappiamo ancora nominare, non è detto che non esista.

Nel Libro di Giobbe, Dio alla fine non risponde con concetti, ma con una tempesta. Non spiega, non consola: tuona. E Giobbe tace. Anche lo scimpanzé tace, ma colpisce. Fa risuonare il legno e attende. Non un dio, ma un suono. Non un miracolo, ma una vibrazione.

Forse la spiritualità non nasce dal bisogno di comprendere, ma dall’urgenza di battere qualcosa — un tronco, un petto, un cuore — finché non risuona.

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punto di partenza: Chimps create ‘rock music' by throwing stones at trees

https://www.science.org/content/article/chimps-create-rock-music-throwing-stones-trees


punto di arrivo di questa tappa: Il Libro di Giobbe, capitolo 38: “Dov’eri tu quando io fondavo la terra?”. Dio non dà spiegazioni a Giobbe, ma lo travolge con la potenza della creazione. Un Dio che rimbomba, più che parlare. Come il suono sordo di un sasso contro un tronco.

domenica 1 giugno 2025

Gesù non ha preso l’ascensore. O forse sì?

Ogni anno, nel giorno dell’Ascensione, c’è chi – dal pulpito o nei commenti sociali – sente il bisogno di puntualizzare: “Non immaginiamoci Gesù che prende l’ascensore e sale su”. È un modo per evitare il ridicolo, certo. Per non far pensare che davvero crediamo che un uomo sia “salito su nel cielo”. Ma cosa c’è dietro questa prudenza?

Viviamo in un’epoca in cui anche

i credenti faticano ad accettare il soprannaturale. È come se la fede dovesse sempre passare l’esame della razionalità moderna, come se fosse offensivo, o peggio, infantile, credere che il corpo glorificato del Risorto possa davvero ascendere, con tutto ciò che implica. E allora si corre ai ripari: l’ascensione è “metafora di distacco”, “simbolo di trascendenza”, “immagine poetica del ritorno al Padre”. Tutto vero, forse. Ma è sufficiente?

Se ogni gesto di Gesù diventa una parabola da interpretare, e non un evento da accogliere, che cosa rimane? Anche le nozze di Cana – l’acqua diventata vino – saranno solo metafora di gioia, anche la moltiplicazione dei pani diventerà un’allegoria della condivisione, anche le guarigioni saranno effetti placebo. È un cristianesimo “civilizzato”, senz’altro compatibile con l’intelligenza contemporanea, ma forse privo della sua potenza originaria.

C’è un passaggio sottile ma decisivo: quando il soprannaturale diventa imbarazzante, lo si relega nel regno delle immagini.

Ma la fede cristiana – a differenza di molte filosofie – è fede in una carne che diventa cielo. In un Dio che si fa corpo, e in un corpo che trasfigura la materia fino ad attraversare le porte chiuse. L’ascensione, in questo senso, è scandalo e promessa. È il segno che il destino umano non è il compostaggio, ma la partecipazione alla gloria.

Negare questo, non per polemica ma per pudore, significa ridurre la fede a un’educazione sentimentale. Un cristianesimo depotenziato, senza miracoli, senza angeli, senza resurrezione, è solo uno stoicismo rivisitato.

Ma il Dio dei Vangeli non è venuto a migliorarci. È venuto a strapparci dal buio con gesti che nessuna metafora può contenere.

Certo, Gesù non ha preso un ascensore.

Ma ha preso sul serio il nostro corpo.

E lo ha portato là dove non ci saremmo mai aspettati.


(Sant’Agostino, nei suoi scritti sull’Incarnazione e la Resurrezione, ricorda che “la carne, che era schiava, è salita al trono”. L’ascensione non è allora un saluto, ma l’intronizzazione dell’umano nell’eterno. Il contrario dell’allegoria: è la carne che osa.)


domenica 11 maggio 2025

Dimmi che sigla sei e ti dirò chi (non) sei

C’era un tempo in cui si era semplicemente tristi. Oggi si è affetti da disturbo depressivo maggiore, in comorbilità con l’ansia generalizzata. Se ti fa schifo un formicaio, potresti soffrire di tripofobia. Se non riesci a smettere di andare in palestra, hai la bigoressia. E se non sopporti chi mastica forte, sei misofonico. Ma siamo davvero diventati così complessi, o abbiamo solo imparato a chiamare ogni starnuto con un nome in latino?

La bulimia delle etichette
Viviamo in un’epoca in cui ogni sfumatura dell’esperienza umana deve essere catalogata, etichettata, legittimata. Le parole si moltiplicano: disturbo, condizione, sindrome, fobia, identità. Si passa con disinvoltura dal vissuto all’autodiagnosi. Chi non riesce a concentrarsi sospetta di avere l'ADHD, chi si sente "diverso" cerca uno spettro che lo contenga. Se ti riconosci in un elenco di sintomi su Instagram, benvenuto nel club.

Il fascino del nome
Dare un nome alle cose è un atto magico. Ma oggi il nome non descrive: sostituisce. L’etichetta diventa una scorciatoia: se so che sei misofonico, non ho più bisogno di comprenderti. La parola tecnica ti racchiude, ti inchioda. Invece di costruire empatia, chiude il discorso. E a forza di nominare tutto, si finisce col non capire più niente.

Rassicurazione e copyright
Etichettarsi rassicura. Vuol dire sapere chi si è. Ma è anche una forma di copyright identitario: rivendicare la propria originalità attraverso la distinzione. Come in una guerra di micro-brand, ognuno vuole la sua sigla, la sua bandiera, la sua esistenza riconosciuta. Il risultato? Una società di zattere linguistiche alla deriva, ciascuna con il proprio acronimo, che difficilmente riescono a parlarsi.

La burocrazia dell’identità
Nel mondo LGBTQ+, la sigla iniziale (già ampia e inclusiva) si allunga di continuo: LGBTQIA+, poi C, poi N, poi P. Un tempo movimento di liberazione, oggi rischia di diventare un ufficio anagrafe. L’intento è nobile: riconoscere ogni voce. Ma il risultato può essere l’opposto: labirinti semantici dove si finisce per confondersi, competere, dividersi. La fluidità si perde, e a volte si torna alla gabbia. Ma più elegante.

Quando nominare è troppo
Byung-Chul Han parla dell’infodemia dell’io: tutto dev'essere leggibile, dichiarato, etichettato. Anche il dolore. Anche il desiderio. Ma l'umano non è un sistema operativo. In questo affanno di chiarezza perdiamo il mistero. La capacità di tollerare l'opaco, lo sfocato, il non ancora detto. Non tutto ha bisogno di un nome. E forse, a volte, non c'eravamo davvero.

L'ironia
La canzone "Non c'eri" di Gianfranco Manfredi ironizzava già negli anni '70 sulla proliferazione di sigle e appartenenze. Un catalogo parodico che anticipava il nostro presente: più le identità si moltiplicano, più si svuotano. Come a dire: siamo così occupati a essere riconoscibili che dimentichiamo di essere riconoscibili anche nel silenzio, nella sfumatura, nel dubbio.


(A proposito, l'immagine a corredo sotto non è una macedonia, è un convegno di identità!)


sabato 12 aprile 2025

Contro l’autenticità (quando serve)

                                                           “Sii te stesso.”


Lo leggiamo ovunque: sui poster motivazionali, nelle caption di Instagram, nei discorsi dei coach.
Ma siamo sicuri che sia sempre un buon consiglio?
Forse dovremmo iniziare a chiederci: quale versione di noi stessi stiamo portando nel mondo?
E se l’autenticità, presa troppo sul serio, rischiasse di diventare una prigione?

Il culto dell’autenticità


Viviamo in un’epoca in cui l’autenticità
è diventata una parola magica. Non essere autentici, oggi, equivale quasi a essere colpevoli.
I social ci invitano a mostrarci “per come siamo davvero”, le aziende si sforzano di sembrare “autentiche” nelle loro campagne pubblicitarie, persino i politici cercano di essere percepiti come

“genuini”, anche quando si vede lontano un miglio che stanno recitando.
Essere autentici, insomma, è diventato un dovere, una virtù, e persino un marchio di qualità. Ma è davvero così semplice?

I limiti dell’autenticità

Il problema nasce quando l’autenticità viene trattata come un lasciapassare universale. “Sono fatto così” può diventare una scusa per non mettersi mai in discussione.
A volte, dietro la maschera della sincerità, si nasconde solo una forma educata di egocentrismo.
Essere autentici non significa dire tutto ciò che ci passa per la testa, né agire secondo impulso. Significa forse, più semplicemente, scegliere con consapevolezza quale parte di noi vogliamo portare nel mondo.
E ammettere che, in certi contesti, un po’ di discrezione non è ipocrisia: è rispetto.

Un punto di vista alternativo

Forse il vero esercizio di autenticità non è “essere se stessi a tutti i costi”, ma imparare a scegliere chi essere, quando, e con chi.
L’idea che abbiamo un solo “vero io” da esibire in ogni contesto è comoda, ma ingenua. Nessuno di noi è uno. Siamo tante versioni, e a volte è proprio la capacità di modulare queste versioni a renderci persone migliori, non peggiori.
Essere autentici, allora, potrebbe voler dire anche non essere sempre uguali a se stessi — ma essere fedeli a qualcosa di più profondo: un’intenzione, un valore, un equilibrio tra sincerità e intelligenza.

Conclusione: l’autenticità e il patto sociale

Essere se stessi, certo. Ma quale “sé” vogliamo mettere in circolo?
In fondo, come ci ricordava Freud ne Il disagio della civiltà, l’appartenenza a una società comporta inevitabilmente una rinuncia: non possiamo agire solo secondo ciò che ci viene spontaneo.
La civiltà — e forse anche la convivenza — esistono proprio grazie a questa tensione: tra ciò che siamo, ciò che potremmo essere, e ciò che decidiamo di mostrare.
Allora forse la vera autenticità non è spontaneità assoluta, ma consapevolezza delle maschere che indossiamo… e della ragione per cui, a volte, scegliamo di tenerle addosso.
E se essere autentici, oggi, volesse dire anche imparare a dissimulare con grazia?

giovedì 27 marzo 2025

La fede che trascende (Se la fede fosse solo per questa vita…)


C’è una frase di San Paolo che mi colpisce ogni volta che la incontro.

Si trova nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 15,19):

"Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini."

A una prima lettura, queste parole possono sembrare dure. Ma più le medito, più mi trasmettono un senso profondo di serietà, responsabilità e gratitudine: per aver ricevuto la fede e per il compito – mai scontato – di custodirla.

San Paolo non sta dicendo semplicemente che i cristiani credono in Cristo per ottenere la vita eterna, quasi fosse una sorta di assicurazione ultraterrena. No. Il suo messaggio è molto più radicale.

Questa frase mi fa riflettere su una verità che spesso rischia di passare in secondo piano: la fede cristiana non è una raccolta di principi morali, né una guida per migliorare i rapporti umani. Certo, vivere secondo il Vangelo porta inevitabilmente a relazioni più autentiche e giuste. Ma questo è un effetto collaterale, non il centro della fede.

La fede non è nata per regolare questa vita. A dirla tutta, non è nemmeno sempre utile sul piano pratico. Non promette soluzioni immediate, né garantisce serenità. Ci chiama piuttosto a qualcosa di molto più grande: una dimensione che trascende il tempo, lo spazio e persino la nostra comprensione.

Credere in Cristo significa entrare in un rapporto vivo con Lui. Un rapporto che non si consuma nella nostra esistenza terrena, ma la attraversa e la oltrepassa, aprendola all’eternità.

San Paolo ci mette in guardia: non riduciamo la fede a un sistema etico o a una "strategia" per affrontare meglio i problemi. La fede cristiana non è pensata per essere utile, ma per essere vitale. È il legame con Dio che dà senso alla nostra vita e ci apre a una speranza che nessuna aspettativa terrena può contenere.

È una chiamata a vivere già oggi con lo sguardo rivolto all’eternità – non come fuga, ma come chiave per comprendere appieno anche il presente.

E questo, per me, è il pensiero che più consola e più entusiasma: sapere che la nostra fede non è chiusa nei confini del mondo, ma ci collega a una realtà più grande, più vera, più nostra. Una realtà che non finisce.

sabato 22 febbraio 2025

Riflessi sul Ghiaccio (impressioni dal Natale)

Nel cuore della città, dove le luci natalizie ancora brillano timidamente contro il cielo invernale, la pista di pattinaggio continua a tessere le sue storie. È un mosaico vivente di colori: piumini rossi, sciarpe azzurre, berretti multicolori che danzano sul ghiaccio come pennellate su una tela in movimento.

Tra questo vortice di modernità occidentale, una figura si distingue con elegante naturalezza. Il suo burqa nero ondeggia gentilmente mentre scivola sul ghiaccio, creando un contrasto poetico con l'allegra confusione circostante. I suoi movimenti sono fluidi, sicuri, in perfetta armonia con il ritmo della pista.

Quando la ragazzina si ferma a bordo pista per parlare con il padre, non vedo confini né barriere. Vedo invece un dialogo tra generazioni, tra tradizioni che si intrecciano con il presente. Nel suo modo di essere, così naturalmente se stessa, scorgo una libertà più profonda: quella di poter essere diversi senza sentirsi fuori posto.

È un'immagine che racchiude la promessa del domani: non un'omologazione forzata, ma una convivenza di identità diverse che si arricchiscono a vicenda. Come i cristalli di ghiaccio sotto i pattini, ognuno unico nella sua forma, eppure parte della stessa superficie lucente.

Forse è questa la vera magia del periodo natalizio che mi è rimasta dentro, quest'anno: ricordarci che la bellezza più autentica risiede nelle nostre differenze, nella capacità di danzare insieme pur mantenendo il proprio ritmo personale.

In quella giovane pattinatrice col burqa ho visto un futuro che già esiste: non un futuro di contrasti, ma di armoniose diversità, dove ognuno può trovare il proprio spazio per brillare.