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sabato 30 agosto 2025

Carcere per cellulari e altre paure antiche

Mi diverte il pensiero che il prossimo passo, dopo il divieto dei cellulari a scuola, sarà l’istituzione di una guardia armata davanti a ogni armadietto numerato. O, più semplicemente, il ritorno dei sorveglianti con registro in mano, pronti a spuntare i trasgressori come in un collegio ottocentesco. Il paradosso, in fondo, è che ci piace crederci più sicuri quando il problema è ridotto a un oggetto da sequestrare.

Il paradosso educativo

Vietiamo i cellulari per proteggere i ragazzi dalla distrazione, ma continuiamo a offrire loro lezioni incapaci di competere con quei rettangolini luminosi che portano in tasca. La tecnologia diventa il capro espiatorio di un’istituzione che fatica a parlare il linguaggio dei suoi studenti. Invece di “disarmarli”, forse dovremmo imparare ad armarci noi, docenti e adulti, di un lessico più vivo, di narrazioni che sappiano sedurre quanto un video su TikTok.

Il ritorno del proibizionismo

Ogni divieto, si sa, genera un mercato nero. Prevedo il nascere di nuove forme di contrabbando scolastico: cellulari barattati per panini alla mensa, compiti svolti in cambio di dieci minuti di Wi-Fi clandestino. L'ora di "spaccio digitale" diventerà il nuovo rito iniziatico, con i più scaltri a fare da pusher di gigabyte, mentre i più ligi fingeranno indignazione. L’ordine apparente, che il divieto promette, rischia di trasformarsi in un gioco a guardie e ladri che nulla ha a che fare con l’educazione.

La macchina del controllo

E così, per dire “niente smartphone”, si mette in moto un apparato di controllo degno di uno stato maggiore: armadietti da presidiare, docenti trasformati in poliziotti, bidelli arruolati come ispettori di tasche, circolari su circolari, sanzioni calibrate al grammo. Il rischio di scivolare in un eccesso di regolazione, dove il gesto educativo si perde dietro l’ansia del controllo. Vale davvero la candela? Non sarebbe più sensato usare quell’energia per costruire una didattica capace di catturare l’attenzione dei ragazzi, invece di blindare un’aula come fosse un carcere di massima sicurezza?

Una storia che si ripete

Non è la prima volta che demonizziamo la tecnologia. Platone, nel "Fedro", racconta del faraone Thamus che rimprovera il dio Theuth per aver inventato la scrittura: avrebbe indebolito la memoria, reso gli uomini più superficiali. Secoli dopo, con Gutenberg, la stampa diventa la minaccia che avrebbe disgregato l’ordine sociale. Negli anni ’70 e ’80, la calcolatrice elettronica era vista come il nemico mortale del pensiero matematico. Poi è stata la volta dei computer, accusati di spegnere le menti, e dei videogiochi, pronti a rendere asociali intere generazioni. Oggi tocca agli smartphone. Ogni epoca ha avuto il suo demone. E ogni volta, quel demone si è trasformato in strumento di cultura, civiltà, progresso.

La nostra schizofrenia digitale

Vietiamo i telefoni in classe per combattere la dipendenza digitale, ma poi affidiamo la gestione di ogni cosa — registro elettronico, comunicazioni scuola-famiglia, prenotazioni dei colloqui, notifiche — a piattaforme digitali. È una schizofrenia adulta che non vogliamo riconoscere: demonizziamo ciò che ci sfugge e sacralizziamo ciò che ci serve.

Infine

Non scrivo per difendere il “telefono libero”, né per celebrare l’onnipotenza degli algoritmi. Scrivo per ricordare che la tecnologia non è mai il problema: lo è il nostro rapporto con essa. Se la scuola impara a integrarla senza idolatrarla né demonizzarla, il divieto non serve più. E il telefono, come la scrittura, la stampa o la calcolatrice, diventa ciò che è sempre stato: uno strumento.



il disagio che nasce dall'agio

smart phood


mercoledì 20 agosto 2025

Canottiera contro radar: la tragica farsa della sicurezza stradale

Ogni estate si rinnova il rituale del sangue sull’asfalto. Un richiamo crudele che annuncia le vacanze con i lampeggianti azzurri. Spesso le vittime sono motociclisti o ciclisti, figure sempre più isolate in un mondo che si finge protetto. Perché se è vero che oggi le auto frenano da sole, avvertono colpi di sonno e mantengono la corsia meglio di chi le guida, è altrettanto vero che queste stesse auto circolano accanto a esseri umani praticamente nudi, in equilibrio su due ruote, protetti solo da un casco e dall’incoscienza.

La tecnologia della sicurezza cresce, ma la convivenza tra chi è dentro una capsula protettiva e chi ne è fuori diventa ogni giorno più grottesca. Come se l’industria automobilistica, gonfiando di sensori le sue creature, si fosse dimenticata che là fuori non ci sono solo altre auto. Ma anche corpi fragili, pelle esposta, ossa scoperte.

Ci si domanda allora perché tanti scelgano ancora di affrontare la strada così, in canottiera, senza difese. Non è solo incoscienza o desiderio di libertà. Spesso è una necessità legata a esigenze economiche o di lavoro l’essere umano contro il mondo, il corpo contro il metallo.

Ma il paradosso resta: più proteggiamo le macchine, più diventano pericolose per chi non lo è. La convivenza è sbilanciata. Come se in una piscina olimpica si gareggiasse fianco a fianco tra chi indossa il costume da gara e chi il giubbotto antiproiettile.

Il problema non è solo tecnico, ma culturale. Siamo intrisi di un’ossessione per il controllo, la performance, l’efficienza. Il veicolo perfetto è quello che sa tutto, prevede tutto, corregge tutto. Ma questa bulimia di protezione – l’ossessione collettiva per una sicurezza totale, misurabile, tecnologicamente mediata – genera, per contrasto, zone di totale vulnerabilità. Più perfezioniamo i dispositivi per evitare gli errori, più rendiamo letali le conseguenze per chi non dispone di alcuna interfaccia protettiva. È una forma di paradossale disuguaglianza: la sicurezza, da diritto universale, si trasforma in privilegio selettivo. E chi ne resta fuori, letteralmente fuori dall’abitacolo, diventa invisibile o, peggio, sacrificabile. Il ciclista non è un residuo, ma una vittima sistemica.

È come se l’intera società avesse delegato la sicurezza alla macchina, dimenticandosi del corpo. Quello vero. Quello che suda, cade, si rompe. Quello che in estate va in giro in mutande, ma continua ad avere lo stesso diritto di stare in strada.


**Hannah Arendt ci ricordava come la libertà non si esercita nella solitudine o nella protezione assoluta, ma nella presenza fragile tra gli altri. In strada, questa fragilità è il punto cieco della nostra civiltà.

La domanda non è come rendere più sicure le auto, ma come restituire dignità, e spazio, a chi sceglie di non averne una.


Col sangue negli occhi

domenica 3 agosto 2025

Più personale per il caffè che per il conto

Varco la soglia di un grande ipermercato di elettronica. L’aria è tersa, vagamente asettica. Mi aggiro tra le macchine da caffè e una giovane donna — sorridente, premurosa, bardata di tablet — si avvicina:

“Se acquista oggi, ha diritto a un buono per sei confezioni di caffè. La registriamo subito?”

Accetto, per cortesia e per curiosità. E parte la liturgia: mail, dati, consensi, scelte su aromi e frequenze. Una seconda addetta prende il testimone, mi guida nel creare un account, selezionare un pacchetto (un “bundle”?). Una terza mi accompagna al banco.

Sono tutte hostess, temporanee, assunte per gestire questa promozione. Lavorano per il caffè, non per la macchina. Per l’accessorio, non per il bene principale di cui si occuperebbe l’ipermercato di elettronica.

Nel frattempo, al banco della cassa — uno solo — si snoda una fila. È lunga, lenta. Tutti in attesa per pagare. Non per scegliere, non per consultare: solo per pagare.

E lì, dietro la cassa, l’unico dipendente dell’intero negozio: l’unico che risponde all’azienda, l’unico che ha un ruolo strutturale.

Mi colpisce la sproporzione. Tre figure per l’operazione accessoria, una sola per l’unico adempimento necessario.


Il “lavoro” si è spostato.

Non consiste più nel realizzare un bene, né nell’assistere nell’acquisto. Consiste nel presidiare procedure di fidelizzazione, produrre click, generare dati, convertire esperienze semplici in sequenze macchinose.

Un tempo, l’operaio produceva un oggetto. Il commesso consigliava un acquisto. L’artigiano aggiungeva valore alla materia. Oggi il valore sembra evaporare, lasciando solo la scia del processo.

E chi lavora non genera più risultati, ma filtra flussi, sorveglia passaggi, avanza richieste che non ha scritto e raccoglie risposte che non comprende.

Il mondo del lavoro non è più nemmeno luogo di conflitto o fatica: è diventato un dispositivo impersonale, che regola flussi e automatismi.

Pasolini avrebbe forse detto che anche il lavoro, come il sesso o la religione, è stato ridotto a una caricatura di sé.

E così ci troviamo più personale per il caffè che per il conto, mentre la macchina che volevamo acquistare resta sullo sfondo, oggetto mutato in pretesto.


Per approfondire:
"Caos Mercato del Lavoro", dove già riflettevo su come i troppi attori e linguaggi rendano il lavoro una giostra burocratica più che un percorso produttivo.

sabato 26 luglio 2025

L’Intelligenza Artificiale è radioattiva (ma non brilla al buio)

Negli anni Quaranta, la fisica smise di essere una scienza contemplativa e divenne – di colpo – un atto politico. Con la fissione nucleare, l’umanità toccò il limite estremo: la possibilità di autodistruggersi. Ma anche di alimentare città, ospedali, industrie.

L’intelligenza artificiale non ha prodotto un “bang” visibile, ma l’onda d’urto è già qui: lavoro, scuola, medicina, relazioni...tutto è investito da una trasformazione rapida, silenziosa, ma radicale.
Come nel caso del nucleare, ci troviamo davanti a un bivio non solo tecnico, ma antropologico.

Due scoperte, un solo bivio:

  • Distruzione o rigenerazione

  • Controllo di massa o emancipazione collettiva

  • Efficienza senz’anima o tempo liberato per la creatività

  • Paura del nuovo o governo consapevole del cambiamento

Ma attenzione: come l’atomo, anche l’algoritmo non decide da solo.
Il vero rischio non è che l’AI “ci rubi il lavoro”, bensì che noi le consegniamo – con gratitudine – la nostra coscienza.                                                                                                


La delega morale è già iniziata.
Chi decide chi viene assunto? L’algoritmo.
Chi decide che contenuti vedere? L’algoritmo.
Chi ci suggerisce come parlare, scrivere, persino pensare? L’algoritmo.
E intanto, a noi restano le “scelte” residuali: cliccare “sì” o “no”, come nei sondaggi di gradimento.

La tecnologia, da sempre, è uno specchio.
E come scriveva Hannah Arendt, non è il male banale a minacciarci, ma l’ottundimento del giudizio.
Un uomo che non pensa non diventa un mostro: diventa una rotella efficiente in un ingranaggio disumano.

Per questo, più che temere l’AI, dovremmo temere la nostra indifferenza.
Non sarà una macchina a decidere se liberare l’umanità o asservirla.
Saremo noi, come sempre.
Noi, uomini e donne di buona volontà.

mercoledì 23 luglio 2025

Fermi tutti, parla un semita (Quando la voce del dolore diventa coraggio civile)

1. Il coraggio di rompere il silenzio

Ci sono dichiarazioni che suonano già sentite, protocollari. E poi ce ne sono altre che hanno il sapore di qualcosa di inedito. Martedì 22 luglio è accaduto questo. Un gesto sobrio, una voce chiara. Eppure un terremoto.

Il Cardinale Matteo Zuppi e Daniele De Paz, Presidente della Comunità Ebraica di Bologna, hanno firmato insieme una dichiarazione sulla guerra a Gaza. Ma non si sono limitati a chiedere la pace. Hanno parlato con parole che scottano. Hanno condannato le armi, chiesto la liberazione degli ostaggi, la fine delle occupazioni, l’apertura di corridoi umanitari. Hanno detto che “nessuna sicurezza sarà mai costruita sull’odio” e che “la pace è sempre possibile”. Parole che pesano, ma non come pietre. Piuttosto come semi.

2. Quando la compassione sfida la paura

In tempi di polarizzazione estrema, ogni parola sembra una trappola. Per questo, negli ambienti ufficiali, prevale la cautela. Si pesano le virgole, si temono le strumentalizzazioni. Ecco perché colpisce il gesto di Daniele De Paz. Perché rompe una consuetudine di prudenza quasi sacrale nelle comunità ebraiche italiane, che da sempre si muovono con comprensibile timore attorno a ogni giudizio pubblico sul Medio Oriente.

Eppure, proprio nel momento in cui la comunità ebraica si sente ferita, assediata, isolata — e quindi naturalmente portata alla chiusura — proprio ora, questa voce si apre, si espone. Non è debolezza. È l'opposto: è fedeltà alla sofferenza del proprio popolo senza cedere alla logica della vendetta. È compassione che non conosce confini.

3. La voce dell’altro come forma più alta di fedeltà

“Chi salva una vita, salva il mondo intero”, dice un proverbio della tradizione ebraica, ripreso anche nel Corano. La dichiarazione bolognese sembra rifarsi proprio a questo spirito. Perché è possibile amare il proprio popolo e piangere anche per gli altri. È possibile sentirsi minacciati e tuttavia restare umani. È possibile dire “io sto con Israele” e al tempo stesso dire “pietà per Gaza”.

Certo, è difficile. Ma è la sola via. Perché il vero nemico non è l’altro popolo. È il cinismo, l’odio, l’identità che si costruisce sulla paura. E allora sì, il dolore può unire. E il dialogo non è debolezza: è l’unico modo di essere forti senza essere brutali.

4. Chi salva una voce, salva un popolo

Il gesto del Presidente De Paz resterà forse isolato. Forse sarà criticato. Forse passerà sotto silenzio. Ma è una voce che merita di essere ascoltata. Perché ci mostra qualcosa che abbiamo quasi dimenticato: la politica non è tutta strategia. È anche, ogni tanto, testimonianza. E la fede — ebraica o cristiana o islamica — non è solo appartenenza. È anche, e soprattutto, capacità di vedere l’uomo nell’altro.

Hannah Arendt, riflettendo sul male radicale, scrisse che esso si nutre di assenza di pensiero. Ma anche il bene può essere radicale, quando nasce da un pensiero che osa — e da una parola che si fa carne. Quella pronunciata a Bologna, in fondo, è questo: una parola fatta carne, nella città di Pasolini. E, forse, anche per questo, più vera.



domenica 22 giugno 2025

Il Tamburo del Nulla (Giobbe e lo scimpanzè)

Ogni epoca ha la sua forma di idolatria. La nostra si chiama “spiegazione”. Di fronte a un comportamento enigmatico, il primo riflesso non è più la contemplazione, ma la dissezione. Se una scimmia lancia sassi contro un tronco, vogliamo subito sapere perché. Se non troviamo risposta utile, ci affrettiamo a chiudere il caso: “lo fa per il suono”. Come dire: fine del mistero.

Eppure, basterebbe poco per capovolgere la domanda: e se proprio quel “suono” fosse il mistero?

Alcuni scimpanzé dell’Africa occidentale sono stati osservati in un comportamento curioso e ripetuto: raccolgono pietre e le scagliano contro alberi specifici. Il gesto si ripete, non porta vantaggi evidenti, e talvolta lascia dietro di sé piccoli accumuli di pietre, come edicole grezze. L’interpretazione dominante — oggi — è che tutto ciò sia frutto di piacere sensoriale. Come bambini che fanno “toc toc” sul tavolo.

Ma da quando in qua un comportamento “gratuito” è automaticamente privo di significato?

Nel gesto reiterato, disinteressato, condiviso e trasmesso ci sono già i tratti fondamentali del rituale. Certo, non troviamo simboli scritti, né narrazioni teologiche. Ma pretendere questi elementi per riconoscere un culto è come negare che un neonato stia comunicando solo perché non parla.

Non sappiamo cosa significhi quel gesto, ma escludere che significhi qualcosa è un atto di arroganza epistemologica.

C’è poi un dettaglio che complica le cose: alcuni di quegli stessi scimpanzé sono stati osservati mentre curavano le ferite di un compagno applicandovi foglie masticate — con attenzione, con costanza, senza tornaconto. Non solo un gesto empatico, ma un gesto codificato, sociale, condiviso.

In fondo, anche questo è un rito: un’applicazione simbolica su un corpo dolente. Come l’olio sul capo, come la cenere sulla fronte, come l’acqua sul neonato. La cura, prima della religione, è già sacramento.

E allora si forma un triangolo inaspettato: il ritmo del sasso, il balsamo della foglia, lo sguardo dell’altro. Non c’è fede, forse. Ma c’è forma. Non c’è parola, ma c’è eco. E questo dovrebbe bastare a farci tacere, almeno per un momento, il nostro bisogno compulsivo di spiegare.

Perché ciò che non sappiamo ancora nominare, non è detto che non esista.

Nel Libro di Giobbe, Dio alla fine non risponde con concetti, ma con una tempesta. Non spiega, non consola: tuona. E Giobbe tace. Anche lo scimpanzé tace, ma colpisce. Fa risuonare il legno e attende. Non un dio, ma un suono. Non un miracolo, ma una vibrazione.

Forse la spiritualità non nasce dal bisogno di comprendere, ma dall’urgenza di battere qualcosa — un tronco, un petto, un cuore — finché non risuona.

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punto di partenza: Chimps create ‘rock music' by throwing stones at trees

https://www.science.org/content/article/chimps-create-rock-music-throwing-stones-trees


punto di arrivo di questa tappa: Il Libro di Giobbe, capitolo 38: “Dov’eri tu quando io fondavo la terra?”. Dio non dà spiegazioni a Giobbe, ma lo travolge con la potenza della creazione. Un Dio che rimbomba, più che parlare. Come il suono sordo di un sasso contro un tronco.

domenica 1 giugno 2025

Gesù non ha preso l’ascensore. O forse sì?

Ogni anno, nel giorno dell’Ascensione, c’è chi – dal pulpito o nei commenti sociali – sente il bisogno di puntualizzare: “Non immaginiamoci Gesù che prende l’ascensore e sale su”. È un modo per evitare il ridicolo, certo. Per non far pensare che davvero crediamo che un uomo sia “salito su nel cielo”. Ma cosa c’è dietro questa prudenza?

Viviamo in un’epoca in cui anche

i credenti faticano ad accettare il soprannaturale. È come se la fede dovesse sempre passare l’esame della razionalità moderna, come se fosse offensivo, o peggio, infantile, credere che il corpo glorificato del Risorto possa davvero ascendere, con tutto ciò che implica. E allora si corre ai ripari: l’ascensione è “metafora di distacco”, “simbolo di trascendenza”, “immagine poetica del ritorno al Padre”. Tutto vero, forse. Ma è sufficiente?

Se ogni gesto di Gesù diventa una parabola da interpretare, e non un evento da accogliere, che cosa rimane? Anche le nozze di Cana – l’acqua diventata vino – saranno solo metafora di gioia, anche la moltiplicazione dei pani diventerà un’allegoria della condivisione, anche le guarigioni saranno effetti placebo. È un cristianesimo “civilizzato”, senz’altro compatibile con l’intelligenza contemporanea, ma forse privo della sua potenza originaria.

C’è un passaggio sottile ma decisivo: quando il soprannaturale diventa imbarazzante, lo si relega nel regno delle immagini.

Ma la fede cristiana – a differenza di molte filosofie – è fede in una carne che diventa cielo. In un Dio che si fa corpo, e in un corpo che trasfigura la materia fino ad attraversare le porte chiuse. L’ascensione, in questo senso, è scandalo e promessa. È il segno che il destino umano non è il compostaggio, ma la partecipazione alla gloria.

Negare questo, non per polemica ma per pudore, significa ridurre la fede a un’educazione sentimentale. Un cristianesimo depotenziato, senza miracoli, senza angeli, senza resurrezione, è solo uno stoicismo rivisitato.

Ma il Dio dei Vangeli non è venuto a migliorarci. È venuto a strapparci dal buio con gesti che nessuna metafora può contenere.

Certo, Gesù non ha preso un ascensore.

Ma ha preso sul serio il nostro corpo.

E lo ha portato là dove non ci saremmo mai aspettati.


(Sant’Agostino, nei suoi scritti sull’Incarnazione e la Resurrezione, ricorda che “la carne, che era schiava, è salita al trono”. L’ascensione non è allora un saluto, ma l’intronizzazione dell’umano nell’eterno. Il contrario dell’allegoria: è la carne che osa.)


domenica 11 maggio 2025

Dimmi che sigla sei e ti dirò chi (non) sei

C’era un tempo in cui si era semplicemente tristi. Oggi si è affetti da disturbo depressivo maggiore, in comorbilità con l’ansia generalizzata. Se ti fa schifo un formicaio, potresti soffrire di tripofobia. Se non riesci a smettere di andare in palestra, hai la bigoressia. E se non sopporti chi mastica forte, sei misofonico. Ma siamo davvero diventati così complessi, o abbiamo solo imparato a chiamare ogni starnuto con un nome in latino?

La bulimia delle etichette
Viviamo in un’epoca in cui ogni sfumatura dell’esperienza umana deve essere catalogata, etichettata, legittimata. Le parole si moltiplicano: disturbo, condizione, sindrome, fobia, identità. Si passa con disinvoltura dal vissuto all’autodiagnosi. Chi non riesce a concentrarsi sospetta di avere l'ADHD, chi si sente "diverso" cerca uno spettro che lo contenga. Se ti riconosci in un elenco di sintomi su Instagram, benvenuto nel club.

Il fascino del nome
Dare un nome alle cose è un atto magico. Ma oggi il nome non descrive: sostituisce. L’etichetta diventa una scorciatoia: se so che sei misofonico, non ho più bisogno di comprenderti. La parola tecnica ti racchiude, ti inchioda. Invece di costruire empatia, chiude il discorso. E a forza di nominare tutto, si finisce col non capire più niente.

Rassicurazione e copyright
Etichettarsi rassicura. Vuol dire sapere chi si è. Ma è anche una forma di copyright identitario: rivendicare la propria originalità attraverso la distinzione. Come in una guerra di micro-brand, ognuno vuole la sua sigla, la sua bandiera, la sua esistenza riconosciuta. Il risultato? Una società di zattere linguistiche alla deriva, ciascuna con il proprio acronimo, che difficilmente riescono a parlarsi.

La burocrazia dell’identità
Nel mondo LGBTQ+, la sigla iniziale (già ampia e inclusiva) si allunga di continuo: LGBTQIA+, poi C, poi N, poi P. Un tempo movimento di liberazione, oggi rischia di diventare un ufficio anagrafe. L’intento è nobile: riconoscere ogni voce. Ma il risultato può essere l’opposto: labirinti semantici dove si finisce per confondersi, competere, dividersi. La fluidità si perde, e a volte si torna alla gabbia. Ma più elegante.

Quando nominare è troppo
Byung-Chul Han parla dell’infodemia dell’io: tutto dev'essere leggibile, dichiarato, etichettato. Anche il dolore. Anche il desiderio. Ma l'umano non è un sistema operativo. In questo affanno di chiarezza perdiamo il mistero. La capacità di tollerare l'opaco, lo sfocato, il non ancora detto. Non tutto ha bisogno di un nome. E forse, a volte, non c'eravamo davvero.

L'ironia
La canzone "Non c'eri" di Gianfranco Manfredi ironizzava già negli anni '70 sulla proliferazione di sigle e appartenenze. Un catalogo parodico che anticipava il nostro presente: più le identità si moltiplicano, più si svuotano. Come a dire: siamo così occupati a essere riconoscibili che dimentichiamo di essere riconoscibili anche nel silenzio, nella sfumatura, nel dubbio.


(A proposito, l'immagine a corredo sotto non è una macedonia, è un convegno di identità!)


sabato 12 aprile 2025

Contro l’autenticità (quando serve)

                                                           “Sii te stesso.”


Lo leggiamo ovunque: sui poster motivazionali, nelle caption di Instagram, nei discorsi dei coach.
Ma siamo sicuri che sia sempre un buon consiglio?
Forse dovremmo iniziare a chiederci: quale versione di noi stessi stiamo portando nel mondo?
E se l’autenticità, presa troppo sul serio, rischiasse di diventare una prigione?

Il culto dell’autenticità


Viviamo in un’epoca in cui l’autenticità
è diventata una parola magica. Non essere autentici, oggi, equivale quasi a essere colpevoli.
I social ci invitano a mostrarci “per come siamo davvero”, le aziende si sforzano di sembrare “autentiche” nelle loro campagne pubblicitarie, persino i politici cercano di essere percepiti come

“genuini”, anche quando si vede lontano un miglio che stanno recitando.
Essere autentici, insomma, è diventato un dovere, una virtù, e persino un marchio di qualità. Ma è davvero così semplice?

I limiti dell’autenticità

Il problema nasce quando l’autenticità viene trattata come un lasciapassare universale. “Sono fatto così” può diventare una scusa per non mettersi mai in discussione.
A volte, dietro la maschera della sincerità, si nasconde solo una forma educata di egocentrismo.
Essere autentici non significa dire tutto ciò che ci passa per la testa, né agire secondo impulso. Significa forse, più semplicemente, scegliere con consapevolezza quale parte di noi vogliamo portare nel mondo.
E ammettere che, in certi contesti, un po’ di discrezione non è ipocrisia: è rispetto.

Un punto di vista alternativo

Forse il vero esercizio di autenticità non è “essere se stessi a tutti i costi”, ma imparare a scegliere chi essere, quando, e con chi.
L’idea che abbiamo un solo “vero io” da esibire in ogni contesto è comoda, ma ingenua. Nessuno di noi è uno. Siamo tante versioni, e a volte è proprio la capacità di modulare queste versioni a renderci persone migliori, non peggiori.
Essere autentici, allora, potrebbe voler dire anche non essere sempre uguali a se stessi — ma essere fedeli a qualcosa di più profondo: un’intenzione, un valore, un equilibrio tra sincerità e intelligenza.

Conclusione: l’autenticità e il patto sociale

Essere se stessi, certo. Ma quale “sé” vogliamo mettere in circolo?
In fondo, come ci ricordava Freud ne Il disagio della civiltà, l’appartenenza a una società comporta inevitabilmente una rinuncia: non possiamo agire solo secondo ciò che ci viene spontaneo.
La civiltà — e forse anche la convivenza — esistono proprio grazie a questa tensione: tra ciò che siamo, ciò che potremmo essere, e ciò che decidiamo di mostrare.
Allora forse la vera autenticità non è spontaneità assoluta, ma consapevolezza delle maschere che indossiamo… e della ragione per cui, a volte, scegliamo di tenerle addosso.
E se essere autentici, oggi, volesse dire anche imparare a dissimulare con grazia?

giovedì 27 marzo 2025

La fede che trascende (Se la fede fosse solo per questa vita…)


C’è una frase di San Paolo che mi colpisce ogni volta che la incontro.

Si trova nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 15,19):

"Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini."

A una prima lettura, queste parole possono sembrare dure. Ma più le medito, più mi trasmettono un senso profondo di serietà, responsabilità e gratitudine: per aver ricevuto la fede e per il compito – mai scontato – di custodirla.

San Paolo non sta dicendo semplicemente che i cristiani credono in Cristo per ottenere la vita eterna, quasi fosse una sorta di assicurazione ultraterrena. No. Il suo messaggio è molto più radicale.

Questa frase mi fa riflettere su una verità che spesso rischia di passare in secondo piano: la fede cristiana non è una raccolta di principi morali, né una guida per migliorare i rapporti umani. Certo, vivere secondo il Vangelo porta inevitabilmente a relazioni più autentiche e giuste. Ma questo è un effetto collaterale, non il centro della fede.

La fede non è nata per regolare questa vita. A dirla tutta, non è nemmeno sempre utile sul piano pratico. Non promette soluzioni immediate, né garantisce serenità. Ci chiama piuttosto a qualcosa di molto più grande: una dimensione che trascende il tempo, lo spazio e persino la nostra comprensione.

Credere in Cristo significa entrare in un rapporto vivo con Lui. Un rapporto che non si consuma nella nostra esistenza terrena, ma la attraversa e la oltrepassa, aprendola all’eternità.

San Paolo ci mette in guardia: non riduciamo la fede a un sistema etico o a una "strategia" per affrontare meglio i problemi. La fede cristiana non è pensata per essere utile, ma per essere vitale. È il legame con Dio che dà senso alla nostra vita e ci apre a una speranza che nessuna aspettativa terrena può contenere.

È una chiamata a vivere già oggi con lo sguardo rivolto all’eternità – non come fuga, ma come chiave per comprendere appieno anche il presente.

E questo, per me, è il pensiero che più consola e più entusiasma: sapere che la nostra fede non è chiusa nei confini del mondo, ma ci collega a una realtà più grande, più vera, più nostra. Una realtà che non finisce.

sabato 22 febbraio 2025

Riflessi sul Ghiaccio (impressioni dal Natale)

Nel cuore della città, dove le luci natalizie ancora brillano timidamente contro il cielo invernale, la pista di pattinaggio continua a tessere le sue storie. È un mosaico vivente di colori: piumini rossi, sciarpe azzurre, berretti multicolori che danzano sul ghiaccio come pennellate su una tela in movimento.

Tra questo vortice di modernità occidentale, una figura si distingue con elegante naturalezza. Il suo burqa nero ondeggia gentilmente mentre scivola sul ghiaccio, creando un contrasto poetico con l'allegra confusione circostante. I suoi movimenti sono fluidi, sicuri, in perfetta armonia con il ritmo della pista.

Quando la ragazzina si ferma a bordo pista per parlare con il padre, non vedo confini né barriere. Vedo invece un dialogo tra generazioni, tra tradizioni che si intrecciano con il presente. Nel suo modo di essere, così naturalmente se stessa, scorgo una libertà più profonda: quella di poter essere diversi senza sentirsi fuori posto.

È un'immagine che racchiude la promessa del domani: non un'omologazione forzata, ma una convivenza di identità diverse che si arricchiscono a vicenda. Come i cristalli di ghiaccio sotto i pattini, ognuno unico nella sua forma, eppure parte della stessa superficie lucente.

Forse è questa la vera magia del periodo natalizio che mi è rimasta dentro, quest'anno: ricordarci che la bellezza più autentica risiede nelle nostre differenze, nella capacità di danzare insieme pur mantenendo il proprio ritmo personale.

In quella giovane pattinatrice col burqa ho visto un futuro che già esiste: non un futuro di contrasti, ma di armoniose diversità, dove ognuno può trovare il proprio spazio per brillare.


venerdì 18 ottobre 2024

L'Ultimo Gesto e L'Occhio del Drone (la parodia della resistenza tra le macerie)


Il video del drone che identifica il terrorista e documenta il suo ultimo gesto mi ha profondamente sconvolto.

In meno di un minuto, assistiamo alla freddezza della morte imminente e a colui che rassegnato l’attende, seduto su una poltrona, tra i resti di un salotto devastato dai calcinacci di un edificio squarciato. 

Nonostante tutto, l’uomo morente, e incapace di alzarsi, trova la forza e la pazienza di attendere l’avvicinarsi del drone, tentando di colpirlo con il lancio di un randello: un gesto grottesco e assolutamente vano, ben consapevoli entrambi della sua futilità.

La parodia finale di un combattente. 

In questa morte al rallentatore, l’unico movimento dall’apparenza umana è paradossalmente quello del drone, che, appena scorge il bastone scagliato dalle le mani dell’uomo, si volta di scatto per proteggersi...gli (?!) occhi.




https://stream24.ilsole24ore.com/video/italia/yahya-sinwar-prima-essere-ucciso-esercito-israeliano-video-idf/AG5JBmc?refresh_ce=1&fbclid=IwY2xjawF_YAdleHRuA2FlbQIxMAABHfs1AxF2EAkD_DKUkA_IMMkpk55Grd0vzmeWPXEaQgNHkT0wLnG1pkFQ6Q_aem_yr-4TVX025oSum8CPGeH0w

giovedì 1 agosto 2024

Olimpiender (pugili donne)

Dunque abbiamo imparato che c'è un grave "tema", l'iperandroginismo, ingiustamente trascurato e messo "all'angolo" nella boxe e nelle competizioni olimpioniche tutte.

Faremo ammenda.

D'altro canto, l'accostamento tra la pugile algerina e le famose presunte compagne di sventura, che si asserisce siano affette dallo stesso morbo, Kim Novak e Charlize Theron, mi ricorda quel proverbio che in veneto suona xe pèso el tacòn del buso (the patch is worse than the hole)

lunedì 8 luglio 2024

Caos Mercato Del Lavoro

 

Ma chi ha il compito di analizzare le esigenze del mercato del lavoro?

Le Regioni, gli Enti formativi, i sindacati, le associazioni datoriali, l’Agenda europea, l’Istat, l’Atlante del lavoro, l’Inapp, i codici CP, il sistema informativo Excelsior, Unioncamere, le tassonomie, le piattaforme e…devo fermarmi per riprendere fiato.

Una miriade di soggetti a occuparsi della stessa problematica, ognuno a modo suo e con il suo linguaggio, spesso incompatibile con gli altri.

E allora servirà, chissà, una cabina di regia con tanti rappresentanti, per concertare…

Un rutilante luna park con effimeri se pur costosi passatempi, dove gli unici a trovare e conservare un lavoro sono i giostrai.

Ecco il link all'illuminante articolo di Emiliano Fedeli in Formazione Cambiamento 1° luglio 2024: La Babele delle fonti informative sul mercato del lavoro: tempo di cambiare rotta?

https://www.formazione-cambiamento.it/frontiere/politiche-dell-apprendimento/la-babele-delle-fonti-informative-sul-mercato-del-lavoro-tempo-di-cambiare-rotta?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR2d0pVkWXKbgwyXP_VwgJtrHnUe1iAHmUREP2XZUpyQAUb1vDoGNdYNw-s_aem_y4M1HQp_Ifquvvb7P_3e5Q

Più personale per il caffè che per il conto

domenica 30 giugno 2024

Il Complotto Della Fatalità

La tragedia del povero bambino caduto nel pozzo

Anziché un rispettoso silenzio, notizie sul numero di quelli che vengono "iscritti nel registro degli indagati".

Ogni giorno ce n'è uno di più.

Ovviamente sono "atti dovuti" per loro la loro stessa tutela, quasi un ipocrita segno di rispetto che include persino la donna che s'era buttata in un estremo tentativo di salvataggio.

Ogni giorno ce n'è qualcuno di più, quasi che il piccolo sia stato vittima di un concertato complotto e non di una fatalità di fronte alla quale mantenere pudore e riserbo.

sabato 22 aprile 2023

Salvate L'Orsa

C'ho riflettuto a lungo, so che non è razionale, ma voglio dar voce al sentimento, a Winnie The Pooh e Teddy Bear e allora firmo la petizione per salvare dall'abbattimento l'orsa assassina.

Sono tante troppe ridondanti le azioni cattive che compiamo ogni giorno, questa potrebbe forse anche essere giustificata e sarebbe in ogni caso assolta o prescritta dentro l'oceano delle atrocità più o meno quotidiane.

Ma ditemi, chi di noi non ha mai stretto un orsacchiotto per vincere la paura del buio?

mercoledì 4 gennaio 2023

Legittime Perplessità?

Mia moglie ritiene che io mi sia fissato e certo così può dirsi.

Ma un polacco a caso che in Italia accoltella una ragazza a caso, la quale sempre casualmente è straniera e per combinazione israeliana, mi lascia perplesso.

Sarà che di turisti israeliani, qui da noi, non ho mai avuto contezza…

E sarà pure che la poveretta era sì in Italia con un’amica, ma si aggirava per Stazione Termini da sola, un azzardo che neppure io mi sento di affrontare a meno che vi sia costretto

Sarà poi che, dal filmato, quelle coltellate sembrano aver sortito (meno male!) scarso effetto, chissà se per la fortunatamente inadeguata manualità dell’aggressore, se per la prestanza fisica della vittima che sembra addirittura prendere la rincorsa nonostante i colpi inferti, o magari per entrambi i motivi o per provvidenziale casualità…

Auguri di pronta e completa guarigione alla vittima.

Vorrei scrivere altro, ma mia moglie mi ricorda che la ricreazione è finita (!)

Buon anno!

sabato 10 settembre 2022

là dove tutto è ovvio (appecoràti)

non saprei, ma alcune esibizioni di forzata sobrietà (tipo ma certo che bello la pasta scotta e il bagno freddo) mi portano a considerare raggiunto un elevato livello di appecoramento (senza offesa per gli ovini eh!), quasi che nel caso, non voglia il Cielo, si dovesse arrivare ai rifugi sotterranei, ancora salterebbe fuori chi esulterebbe per il ritrovato spirito di solidarietà e di vicinanza...

domenica 17 luglio 2022

Anche Se (tks PNRR)

Anche se non avessimo più nulla da mangiare,

Anche se fossimo senza più un tetto, sotto bombardamenti,

Anche se rimanesse, seppur decrepito un solo medico non laureato con Google

ce lo potremo sempre comunicare in un microsecondo...e sono soddisfazioni.

Infatti: "Il 27% delle risorse totali del Piano nazionale di ripresa e resilienza (pdf) sono dedicate alla transizione digitale" (wow wow wow)

https://www.agid.gov.it/index.php/it/agenzia/attuazione-misure-pnrr?fbclid=IwAR0fIEVIb6SrU21jpoHzF0ufR8uw2JOiPKr1jRe4MZKvnnpgYxajJ4IRduY

mercoledì 25 maggio 2022

IDC ideale di cittadinanza


Non so se stia nei giovani il problema.
Vero è che non tutti i lavori possono essere "di per sé" gratificanti e avvincenti.
Non "di per sé"...
Ma se invece si riuscisse ad intessere una trama di ideali entro un progetto presago di futuro, allora credo che ogni compito, anche il più umile, acquisterebbe un significato allettante, anche per i meno laboriosi.

mercoledì 6 aprile 2022

Sgradevoli Compagnie


Sono sempre stato critico verso discriminazioni da GP ed eccessi di vaccinismo.

Ma non riesco ancora a capacitarmi di essermi trovato in compagnia, come ho poi scoperto, anche di integralisti del complottismo, animati dallo stesso spirito fazioso tipico di certo estremismo da GP.


Insomma, se sono comprensibili le diverse sfumature sulla strategia di difesa da virus e da invasori, resto allibito davanti a chi nega vi siano un invaso e un invasore, o addirittura ne rovescia i ruoli.




martedì 15 marzo 2022

lunghe tragiche partite

Putin non ha fretta, perché quanto più passa il tempo, tanto maggiore è il logorio di alleanze ed equilibri geopolitici.

Per lui tutte opportunità, sia che si tratti di rinsaldare che di sparigliare.

Un modo per logorare anche proteste, indignazioni e sanzioni economiche.

domenica 13 marzo 2022

Guerre

 "Un grido è stato udito in Rama,

un pianto e un lamento grande:
Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata,
perché non sono più."

(Mt 2)

lunedì 21 febbraio 2022

Col sangue negli occhi

Incidente sull'asse attrezzato, un corpo rannicchiato sul fianco, immobile e muto sull'asfalto.

Il casco integrale affumicato non lascia intravedere nulla, ma perlomeno è al suo posto, mentre qualche decina di metri più avanti si intravede il rosso della moto rovesciata.

Sono tra i primi a fermarmi, nessuno di noi è del mestiere, a me viene la visione a tunnel già nel telefonare al 118 ("no, non dà nessun segno di vita"), un'altra signora ha la prontezza di collocare il triangolo rosso a monte ad una distanza che mi pare adeguata.

Siamo in 4-5 a vegliare quel corpo che immaginiamo sia un giovane uomo, nessuno di noi azzarda commenti, attendiamo l'ambulanza come chi deve aspettare.

Uno o due lo vegliano dappresso, io, la signora ed un altro cerchiamo di rallentare le auto in arrivo.

E se il corpo immobile stringe lo stomaco, questi fanno andare il sangue al cervello, questi che alle 4 del pomeriggio, col sangue negli occhi, ignorano il triangolo e l'auto della polizia nel frattempo fermatasi sull'altra carreggiata, ignorano le segnalazioni dei presenti, ma si sorpassano e accelerano su quei 60 metri, salvo frenare per morbosa curiosità quando s'accorgono che..."toh c'è un uomo a terra".

Maledetti voi e le vostre invettive, che le ho sentite tutte mentre me le ringhiavate contro guardandomi con odio, gli occhi in fiamme per l'affronto subito (le labbra e i palmi delle mani che implorano "piano...piano...").

Tra noi a piedi, un fremito di commozione quando il corpo disteso inizia a muovere una mano e a rispondere con un paradossale ma benedetto "sì" alla banale ed insostituibile domanda "va tutto bene?" (segue la raccomandazione di non muoversi).

Arriva nel frattempo un'ambulanza di passaggio che vedendoci cambia strada e inizia i soccorsi.

Noi ce ne andiamo in silenzio, ognuno sperando e pregando a testa bassa.


Canottiera contro radar: la tragica farsa della sicurezza stradale

martedì 18 gennaio 2022

Dopo di me il diluvio?

Io, che sempre ho considerato la mia vita individuale al primo posto, e perderla come la cosa peggiore, ora inizio a temere, forse in misura quasi simile, la dissoluzione sociale e lo sfacelo della civiltà.

Per la prima volta, a fronte dell'inevitabile conclusione del destino terreno personale, che sinora rendeva insignificante "tutto il resto", sento una stringente compassione per l'incognita che si è abbattuta sul futuro della specie.

martedì 4 gennaio 2022

il Tennista Esente

Siamo tra i Paesi più vaccinati al mondo e nonostante ciò abbiamo avuto 259 morti in un giorno...

E però il problema di oggi, guarda un po', sembra sia l'esenzione ottenuta da UN giocatore serbo per partecipare al torneo australiano di tennis.

Ma forse è proprio per questo genere di mentalità che abbiamo 259 morti in un giorno nonostante siamo tra i Paesi più vaccinati al mondo...

venerdì 31 dicembre 2021

buon anno

credo che serva tanta visione ampia, che per me significa sempre congiunta a buon senso e moderazione;

non ho mai fatto i botti, ma la pretesa di abolirli mi sembra assurda; ognuno conosce se stesso e le sue priorità, legate alle diverse fasi di vita;

buon anno a chi farà i botti così come a chi vorrebbe farli ma non può, così come a chi rimarrà alla finestra, così come e a chi farà da scudo alle paure dei propri cari, dei propri bimbi e dei propri gatti-cani;

buon anno!

martedì 28 dicembre 2021

concessioni a spasso nel tempo


Una concessione che scade a metà marzo, ma che se non la rinnovo entro gennaio, oggi è già scaduta da 10 giorni...
Neanche Freud poteva immaginare simili perversioni di stampo buro-cibercratico.
Il cittadino ha una dignità sinché consuma, ma nelle altre dimensioni perde ogni valore e persino il diritto alla ragionevolezza.

domenica 19 dicembre 2021

andarsela in cerca

Coloro che vorrebbero negare le cure a chi non si vaccina, mi ricordano molto quelli che vogliono rifiutare l'approdo ai disperati dei barconi.

Entrambi sono espressione della medesima inumana acredine abbaiata contro quelli che non si meritano niente perché " se la sono andata in cerca, nessuno li ha obbligati a...".

Non aver commesso nulla di male non è sufficiente ad ottenere solidarietà, servono anche patenti di valore al merito, e tra queste non è contemplata
la miseria.

giovedì 16 dicembre 2021

Oggi sciopero generale

Per cambiare, che non significa buttare via tutto, perché certo non tutto è sbagliato, ma molto può essere migliorato, se ancora abbiamo un minimo di immaginazione.
I democratici, o progressisti, hanno perso finora gran parte del loro ascendente proprio per eccesso di realismo politico, del tutto privo di una dimensione ideale.

domenica 12 dicembre 2021

ogni mattina

Ogni mattina respira il fluido in cui sei immerso, quello che dà un colore, preciso o sfumato, a tutta la giornata.
Perlopiù sono tinte grigie venate di nero.
Resti stupito dei rari casi in cui, insolito frammezzo, quel respiro è invece limpido, quale inaspettato benefico unguento.
Così dicono sia nell'occhio del ciclone, e così sia.

domenica 30 maggio 2021

I Ragazzi Del Triage 1

Caro ragazzo del triage che, autista mie moglie e passeggero un io accasciato, sull'orlo della perdita di coscienza ed implorante per i dolori, hai iniziato a discutere che
sei uscito all'ingresso del PS (Pronto Soccorso) nonostante non ti competa, e
hai voluto conoscere (per distorcerla), la cronistoria di quella mezz'ora di viaggio allucinante.
Hai voglia a dirti che non era un incidente, ma un malore, per te c'era qualcosa che "non te buttava paro".
Da perfetto Sherlock Holmes della sanità, hai ipotizzato che io e mia moglie fossimo in realtà due estranei, conosciutisi per strada solo pochi minuti prima.
Comunque arrivare al PS con in quelle penose (seppur simulate) condizioni con la propria auto è vietato, dovevamo fermarci per strada, chiamare il 118 e farmi venire a prendere dall'ambulanza.
Anche perché adesso se mia moglie non riesce a farmi uscire dalla macchina e ad aiutarmi a salire sul letto a rotelle, e il ragazzo del triage putacaso ci mettesse le manine sue e io mi facessi male lui diverrebbe corresponsabile, senza copertura assicurativa, trovandoci noi tutti all'aperto.
Comunque, sconosciuto ragazzo mio del triage, ti ringrazio che alla fine m'hai portato dentro, anche se poi m'hai lasciato in un angoletto, aspettando il cambio del turno.
Se avessi avuto più presenza di spirito, avrei telefonato al 118 da lì fuori del PS o anche, non avendo ferite né fratture, al bancone del triage ci sarei arrivato strisciando per terra.

mercoledì 17 marzo 2021

la pallavolista incinta e il vaccino

E' di questi giorno la notizia della pallavolista chiamata in giudizio dalla società ex datore (datrice?) di lavoro per i presunti ingiusti danni dalla squadra subiti a seguito di improvviso (!) e non concordato stato interessante in cui la signora era inopinatamente incorsa

Generale la riprovazione nei confronti delle esose mire societarie.

Generale e ampiamente giustificata, data l'assoluta incomparabilità tra il diritto naturale a procreare e il diritto ad un posto in classifica.

Questo ci insegna come le verità emergano con evidenza quando a contatto con un reagente sensibile, quale, nel caso in questione, non l'istinto di sopravvivenza della specie, pure esso in gioco, ma piuttosto la comune sensibilità verso un desiderio di procreazione insopprimibile, rispetto al quale passano in secondo piano le opposte ragioni di stampo venale.

Purtroppo non sempre abbiamo un reagente di tale forza, e così si confondono in acritica scala di priorità altri contrapposti diritti.

La comprensibile e doverosa solidarietà verso la pallavolista sfuma così in diffidenza e ostilità verso chiunque manifesti dubbi a vaccinarsi contro il Covid-19, sebbene anche qui sia in gioco un insopprimibile diritto naturale, quello della sopravvivenza individuale a fronte di un danno del tutto ipotetico ed eventuale in caso di mancata adesione al vaccino.

Se desiderate generale comprensione e solidarietà, puntate tutto sulla gravidanza (anche se siete una coppia di maschi)...o sulla sua interruzione...


Cosa ci dice la storia della pallavolista Lara Lugli

Lara Lugli, la pallavolista senza stipendio perché incinta

giovedì 4 marzo 2021

Domani è già oggi

Ospedale enorme, coi fabbricati nuovi a fronte di quelli originari, tutti comunque in uso.

Parcheggio libero, parcheggio a misura di stadio completamente pieno, forse un migliaio di auto, chissà che file dentro, ma dentro è già una parola grossa, per arrivarci devi percorrere mezzo perimetro della Mole, di già in solitaria.

Superato l'ingresso, silenzio e deserto, rari utenti sperduti negli spazi alti ed ampi, nessuna coda, nessuna caciara, devo andare al CUP per 2 volte e in entrambi i casi mi chiamano il numero mentre ancora il biglietto sta uscendo dalla macchinetta.

Una guardia solitaria che mi prende la temperatura è l'unica presenza nel districarmi tra centinaia di sedie vuote d'attesa, su decine di file, sino a raggiungere la trincea degli sportelli, da cui sbucano, opache e silenziose, fluide presenze officianti ticket.

Nessun ritardo, all'esame mi chiamano puntuali, ma quando poi esco sotto il sole abbagliante mi dico che una pandemia in cambio di puntualità svizzera è un prezzo tragicamente esoso, ridateci code e ritardi!

E la marea di macchine abbandonate fa pensare a persone, coppie, famiglie, giunte a un controllo per un po' troppo di tosse e invece ingoiate dentro il mostro di cemento, sedate in un cubicolo, se non addirittura digerite ed espulse.

Di tutti loro restano soltanto, ingombranti lapidi, le cocenti, abbacinanti auto.